Nei tempi lontani
della nostra storia, le valli erano abitate da pochi uomini riuniti in
villaggi, e da altri esseri molto più antichi di loro.
Tra le montagne l’eco della Creazione non si era ancora smorzato, e ciascuno viveva di quello che la montagna, i suoi boschi e i suoi prati potevano offrire.
Tra le montagne l’eco della Creazione non si era ancora smorzato, e ciascuno viveva di quello che la montagna, i suoi boschi e i suoi prati potevano offrire.
Esther e Lupo
vivevano insieme, erano innamorati.
In ogni spazio
della loro casa, in ogni oggetto, nei gesti che essi compivano si respirava il
loro amore, la concordia, la pace.
Esther filava e
tesseva la lana, la sua maestria era tale che persino i Signori da altre valli
le commissionavano stole, mantelli, calzari e indumenti. Ella rendeva il filato
morbido e lucente.
Per vezzo e per
necessità indossava sempre una cappa di morbida lana, resa bianchissima dalla
lisciva.
Lupo, tenendo
fede al suo nome, era cacciatore. Percorreva le valli in lungo e in largo,
cacciando per nobili e mercanti che ambivano ad avere sempre selvaggina a tavola.
Ogni mattina diceva
a Esther: “Vado a caccia, tornerò dopo il tramonto.” E lei lo sapeva nei boschi
intorno al villaggio, a caccia di caprioli, o sulle pendici rocciose a
inseguire camosci.
Oppure: “Parto
per inseguire un preda, non so quando tornerò” Esther capiva che doveva cacciare
un lupo o un orso, che avevano depredato il bestiame di qualche contadino o
minacciato la pace di qualche piccolo borgo.
E quelle notti da sola non finivano mai.
Ma appena ve ne
era l’occasione, nella stagione calda, i due amavano trascorrere le serate nella
piazza del villaggio, a discorrere con amici e conoscenti, o andare nel borgo vicino,
ove feste e mercati erano più frequenti. Al ritorno, a notte inoltrata,
sedevano sull’uscio di casa, e osservavano le stelle, che ruotavano in silenzio
nel cielo.
Una mattina Lupo
disse a Esther: “Parto per cacciare camosci sopra i prati del Pegherol, tornerò
questa sera.” Ella lo salutò e iniziò il suo lavoro quotidiano. Il giorno
trascorse, e il tramonto colorò di rosso le cime intorno al villaggio. Lupo non
era ancora tornato, ma Esther non se ne preoccupò. Spesso la preda lo conduceva
per sentieri lunghi da percorrere.
Il manto della
notte coprì di oscurità la valle, ma Lupo non rientrava. La preoccupazione di Esther
cominciò a farsi insistente, anche se ella cercava ogni ragione per giustificare
il ritardo.
Trascorse la
notte nel dormiveglia, il capo appoggiato al tavolo ove una lanterna restava
accesa, pronta per il rientro di Lupo.
L’aurora la vide
sveglia, e poco dopo, indossata la candida cappa, Esther si avviò verso la zona di caccia.
Raggiunse i
prati, ma del suo uomo non v’era traccia.
Prese a salire, mentre il cuore batteva sempre più veloce nel suo petto.
Superò il limite del bosco, ove i pini cedono il posto a prati chiazzati qua e
là da cespugli di mughi e radi larici contorti.
Lo sguardo poteva spaziare su ampi versanti erbosi, e cime rocciose punteggiate
di chiazze di neve. Nessun segno di Lupo o del suo passaggio.
Per ore cercò su
quelle montagne, invocando il nome del
suo uomo a gran voce, di tanto in tanto. Solo l’eco le rispondeva.
Seguendo una
esile traccia di sentiero, tra gli sfasciumi, vide improvvisamente una sagoma
bruna, immobile, che ostruiva il passaggio. Si avvicinò, era un camoscio, moribondo, con il fianco squarciato da una
freccia. Riconobbe quella freccia. Il
braccio che aveva teso l’arco che la lanciò era quello di Lupo.
L’angoscia l’assalì.
Mai era successo che una preda fosse lasciata agonizzante, senza tentare di
porre fine alle sue sofferenze affrettando l’ultimo respiro. Lupo non le
avrebbe rifiutato il colpo di grazia, se non fosse successo qualcosa a lui.
Il sangue dell’animale
indicava a ritroso da dove provenisse. Esther fu tentata di correre avanti,
seguendo le tracce. Ma prima doveva compiere un atto di pietà. Pose la sua
testa accanto a quella del camoscio, mormorò una preghiera di perdono, e pose
fine alla sua vita con un taglio netto alla gola dell’animale.
Proseguì quasi
correndo sino alla sommità del monte, là
il sentiero si addentrava tra rocce affilate e umide. Si arrampicò, con mani e piedi, sugli scomposti anfratti della cima. E lo
vide.
Il corpo scomposto
era in un buco tra le rocce. Immobile. Morto. Irraggiungibile. Esther urlò tutta la sua disperazione. Urlò, ma nessuno poté udirla,
troppo lontane erano le case degli uomini.
Cercò di
raggiungere Lupo, ma le pareti rocciose erano troppo ripide, e lo spazio
angusto. Provò ad allungare un braccio, ma le sue dita non riuscivano neppure a
sfiorarlo.
Stette a lungo in
ginocchio , piangendo lacrime su di lui, gridando il suo nome, imprecando
contro il destino che si era frapposto tra loro, impendendole di amarlo ancora,
per sempre.
Le mani
sanguinavano per le rocce affilate, il cuore era in tumulto, la mente confusa.
Pregò perché venisse tolta anche a lei la vita, che senza Lupo il sapore del
quotidiano da dolce che era si era fatto amaro.
Il tempo passava.
Sulla montagna c’era solo lei, a custodire quel corpo. Il giorno si avviava al
declino.
La ragazza cercò
dei fiori da gettare sul corpo dell’amato, ma intorno a lei solo rocce e erba resa
grigia dalla polvere. Sollevò lo sguardo verso il cielo che si stava riempiendo
di stelle. Pensò: “Oh, potessero le stelle scendere e coprire il mio uomo dormiente.
Perché io, di fiori così belli, non ne ho trovati.”
Con il buio
giunse il freddo, ma Esther non se ne curava. Il suo pensiero vagava tra i
ricordi degli anni passati insieme a Lupo, delle risate, dei baci, dei milioni
di passi percorsi.
Pensava, rivolgendosi
a lui:
“Mi accorgo che
tutto il tempo passato insieme
è stato allo stesso momento
tempo di semina
e tempo di raccolto.
è stato allo stesso momento
tempo di semina
e tempo di raccolto.
Abbiamo seminato
la nostra fedeltà
non solo alle nostre anime
all’essenza stessa dell’Amore
e abbiamo raccolto Gioia.”
non solo alle nostre anime
all’essenza stessa dell’Amore
e abbiamo raccolto Gioia.”
Consolata da
questo pensiero, Esther si stese sull’erba gelida, diede un ultimo sguardo alle
stelle, coprì il capo con la sua candida cappa, e si addormentò per sempre.
Nella notte, la
montagna era tornata silenziosa, immobile.
Lentamente le
stelle, che avevano udito l’invocazione di Esther, scesero sulla Terra.
Sfiorarono la bianca cappa della ragazza e si distesero nei prati intorno,
intenzionate a rendere omaggio ai due giovani e al loro amore.
Da allora le
stelle alpine impreziosiscono le cime delle montagne con i loro fiori, dai petali
candidi e soffici come la cappa di una giovane sposa.
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