Dopo il contagio



Dopo il contagio

Il Mondo di Madreselva


Loris G. Navoni




Anno Domini MCCCC, inditionem IX, die veneris XXII octobris,

Rispettabile padre, confido che i malefici effluvi della peste abbiano cessato i loro influssi presso la vostra dimora, così come sta accadendo qui. In obbedienza alle vostre richieste sono a rendervi edotto degli avvenimenti che mi sono capitati dall'ultima vostra visita, che è ormai un anno trascorso da allora.

La peste ha colpito anche il nostro convento di San Tomè, seppur non duramente come altrove. Appena vi furono avvisaglie che il contagio stava risalendo la valle, ci fu imposto di non uscire più dal convento. Per sicurezza si iniziò a diminuire le razioni di cibo, anche se una consorella affermava di aver visto un giorno in un angolo della dispensa numerose forme di cacio e di pane, che però erano scomparse il giorno dopo. Si vociferava che la badessa avesse qualche affare con i signori di Arzenate. Forse per lei non valgono le regole di probità che ci vengono imposte.

Per qualche settimana tutto andò bene. Poi anche nel convento entrò il morbo diabolico.

Prima fu la mia amica Violante, come me novizia. Fu colpita da febbre alta con brividi, male alla testa e vomito. Venne portata nella foresteria. Non la vidi più. Mi dissero che era morta tra atroci dolori dopo pochi giorni. Seguirono altre due consorelle. Anch’esse isolate, una soccombette al male, l’altra dopo due settimane si rimise in piedi, e dopo pochi giorni fu in grado di prestare assistenza alle altre quattro consorelle che nel frattempo si erano ammalate.

Tutte noi abbiamo vissuto quei giorni con sgomento, dolore e paura.

Pregavamo giorno e notte, e se dapprima chiedevano a Nostro Signore di far sì che la pestilenza non colpisse il nostro convento, poi pregavamo affinché le sorelle non soffrissero, e infine lo supplicavamo che se le portasse in fretta con sè onde evitar loro maggiori sofferenze.

Furono dodici in totale, tra sorelle e novizie, le anime sacrificate al morbo, la metà esatta delle abitanti il convento.

Restammo isolate per tutto l’inverno, senza poter far nulla per alleviare le sofferenze dei cristiani che abitavano i borghi tutt’intorno e che bussavano al nostro portone. Madre Ippolita ci aveva vietato espressamente di avere qualsiasi contatto con chiunque vivesse al di fuori delle mura.

Tuttavia per lei non valeva questa ingiunzione. Consorelle affermavano di aver visto due o tre figuri entrare di soppiatto da un piccolo ingresso nascosto nella sagrestia che dà direttamente all’esterno e che pensavamo mai utilizzato, e appartarsi con la badessa.

Cosa facessero, non era dato sapere, ma qualcuna si azzardava nell’immaginare cose non confacenti alle virtù richieste a una badessa.

Le notizie dall’esterno erano poche. Si sapeva che la peste era risalita nella Valle del Bremp sino oltre la Goggia, ivi aveva esaurito la sua forza. Da tempo non si registravano morti per peste.

Fu allora che la Madre Ippolita mi convocò.

Entrai nel suo studio, vi era un’altra consorella più anziana, suor Anita, che aveva forse superato ormai i cinquant’anni.

Madre Ippolita mi disse che era necessario andare con un carro a prendere merci pronte in un magazzino di Plazza.

“Solitamente ci andava sorella Anita con sorella Adalgisa, che però, come sai, ci ha preceduto nella casa del Padre. Non posso permettere che Anita vada da sola, ha bisogno di una compagna.”

“Tu sei la più anziana tra le novizie, e quella che meglio conosci le cose del mondo. Accompagnerai sorella Anita. Non dovrai rivolgere parola a nessuno, né mai ti allontanerai da lei. Vi accompagnerà un uomo fidato, un milite del Signore di Arzenate.”

L’idea di poter uscire dalle quattro mura del convento mi rallegrò l’animo. Tuttavia nello stesso momento, l’idea di dover viaggiare con sorella Anita, che il più delle volte si era mostrata scontrosa e antipatica, specialmente nei confronti di noi novizie, spense il mio entusiasmo.

Partimmo su un carro. Con l’aiuto di Dio, saremmo arrivati in serata a Plazza.

Attraversammo villaggi che il morbo aveva colpito pesantemente. Gli scampati alla malattia si aggiravano per le strade come sonnambuli. Ci guardavano con occhi bramosi, mirando alle nostre bisacce gonfie, ma la spada tenuta bene in vista da Cornelio, il milite che ci accompagnava, li teneva a buona distanza da noi.

Mi guardavo intorno, e pensavo a quanto fosse fortunata la vita nel convento. Pur non potendo avere una dieta ricca come nelle stagioni dell’abbondanza, nessuna di noi pativa la fame, e l’essere rinchiuse e con ampi spazi per ospitare le malate ci aveva permesso di evitare la fase più acuta del contagio.

Questi popolani, invece, erano esposti a ogni tipo di pericolo. C’era la peste, ma c’era anche la carestia, i raccolti non bastavano a sostenere la famiglia, e un villaggio depredava quello confinante, ed entrambi venivano razziati dalle bande di malfattori. Poi c’erano quelli che fuggivano da Bergamo, dove il morbo aveva colpito duramente, e si aggiravano di villaggio in villaggio a elemosinare rape ammuffite, pane duro come pietra, croste di formaggio irrancidite, spesso contendendole ai maiali.

Avevamo percorso qualche miglio, quando il cielo si rannuvolò all’improvviso. Non ci fu nemmeno il tempo di pensare e fummo investiti da violenti scrosci d’acqua. Provammo a proseguire, ma ben presto la strada divenne un fiume di fango, le vesti stracci che gelavano le membra. Cercammo un rifugio, trovammo un capanno da condividere con i due cavalli, il palafreno di Cornelio e il somiere del convento.

In un angolo vi era un po’ di paglia, che fu di conforto per i cavalli e per noi giaciglio. Dall’altro un focolare e Cornelio cercò di accendere un fuoco per restituire un po’ di calore alle membra intirizzite. Inutilmente, perché la sua pietra focaia era troppo umida, Fuori il diluvio continuava. Non potevamo far altro che aspettare. Mi appisolai.

Sorella Anita principiò a tossire e a respirare rantolando. Mi recai a prestarle conforto, senza pensare al peggio. Scottava. Non sapevo che fare. Avrei voluto uscire e cercare erbe medicamentose nei prati, che potessero abbassarle la febbre, ma continuava a piovere, e stava sopravvenendo l’oscurità. Non potei fare altro che vegliarla e pregare per lei.

Il mattino dopo, Anita aveva reso l’anima al Signore.

Scavammo con la spada e una picca che stava nel capanno una buca poco profonda, dove ponemmo il corpo della poveretta, mentre il cielo si tingeva di ceruleo. Cornelio tremava dalla paura.

“E se fosse peste?” seguitava a dire. Cercavo di tranquillizzarlo, ma in fondo anch’io temevo che il morbo avesse aggredito pure lei. Non osammo toccare il corpo più del necessario, pertanto non potemmo verificare se vi erano bubboni o pustole.

Coperto la salma con terra e pietre, promettemmo alla morta che saremmo tornati per riportarla in convento e farle un vero ufficio funebre come si addice a una cristiana.

Cornelio non cessava la lamentela sul rischio di essere stati contagiati. Al che sbottai:

“Ma insomma, se fosse peste saremmo già stati contagiati. Le siamo stati accanto per tutto il giorno. Se questo è il nostro destino, agitarsi non serve a nulla, se invece siamo destinati a sopravvivere, la paura non ha ragion d’essere.”

Il milite rimase un po’ pensieroso, non pareva avere un intelletto molto acuto. tuttavia credo che la mia spiegazione lo avesse in qualche modo colpito, perché smise di lamentarsi.

Attaccammo il somiere al carro e Cornelio si mise a cavallo. “Per agir più veloce in caso di pericolo.” disse.

Proseguimmo verso Plazza, un tragitto che bastavano poche ore ci stava impegnando già da più di un giorno.

Attraversammo i borghi di Zonio, Sancti Peregrini, Sancto Johanne Blanco. Ovunque vi erano lutti e desolazione. Qualcuno si aggirava sul limitare del bosco, alla ricerca di qualche bacca tardiva. Altri si muovevano nel villaggio quasi fossero sonnambuli. Al sopraggiungere del carro, molti volti si illuminarono speranzosi, spegnendosi quasi subito, al constatare che il cassone era vuoto.

“Dovremo stare molto attenti al carico, al ritorno. Temo la fame di questa gente.” commentai.

Al fine, dopo aver superato Lena, una breve salita ci portò a Plazza. Il mercante ci fece entrare furtivi nel suo cortile. Caricammo quattro forme grandi di cacio stagionato, ventiquattro forme più piccole di formaj de mut, dodici pani neri, dodici di orzo e sei di farina bianca.

Annotai diligente tutto il carico, lo copiai su un altro foglio che suggellai col timbro del convento e resi al mercante e ci preparammo per il ritorno.

Non passavamo inosservati. Il telo di protezione era rigonfio, si poteva facilmente intuirne il contenuto. Cornelio sguainò la spada e la tenne bene in vista. Passammo Lena, qualche derelitto si avvicinava pericolosamente al carro, allontanato dal soldato dall’agitare della sua lama.

Provavo afflizione per le condizioni di quelle persone. Continuavo a chiedermi cosa avrei potuto fare.

Fu alle porte di Sancto Johanne Blanco che presi la decisione. Una giovane madre, portando un infante in braccio quasi fosse un fagotto di stracci, si rivolse a me con gli occhi pieni di lacrime.

“Ti prego, Madre, abbi misericordia di noi, di questo mio bambino che non mangia da due giorni!”

Provai ad abbozzare una replica al fatto di avermi chiamato madre, io che sono solo novizia, ma le sue mani tese, il volto contorto in una smorfia disperata, indussero in me un sentimento di compassione. Cosa potevo fare per loro? Non avevo nulla di mio, ma avevo un carico di cibo. Era molto cibo, anche per il nostro convento. Forse avremmo potuto fare a meno di qualcosa.

Chiesi a Cornelio di tagliare una forma di pane d’orzo, e ne diedi metà alla donna, e tagliammo una anche di formaj, e anche di quello ne donai a quella madre.

Ci avviammo ma, vedendo che avevamo donato del cibo alla donna, altri si stavano avvicinando.

“Cosa facciamo?” chiese Cornelio preoccupato.

Come potevo decidere io, umile novizia, di un carico che mi era stato affidato? Eppure questa gente soffriva, e non era forse dovere di ogni cristiano seguire i comandamenti del Signore?

Sapevo che mi sarei pentita di quanto stavo per fare, ma era la cosa giusta.

“Dividi in pezzi metà del pane e del formaggio e distribuiscili a chi ha bisogno.”

Cornelio mi guardò con occhi sbarrati.

“Fai come ti dico, è una mia decisione, non tua.”

Proseguimmo porgendo pagnotte e formaggio, e sui volti delle donne e degli uomini vedevamo fiorire un barlume di speranza.

Giunti al convento, Cornelio si congedò in fretta.

“Vado dal mio Signore. Di sicuro per questa tua bravata prenderò una buona dose di scudisciate, ma ci sono abituato. Sempre meglio che cadere nelle grinfie di madre Ippolita. Che il Signore ti protegga!”

Spronò il suo cavallo e si allontanò velocemente.

Entrai e raccontai tutto alla sorella cellaria, che fu turbata dalla mia scelta. Mi disse di andare nella mia cella e attendere una chiamata dalla madre superiora.

Trascorsi il tempo pregando e meditando sul mio gesto. Sapevo di non aver adempiuto ai voleri della madre e agli interessi del convento, ma in cuor mio sapevo di aver preso la decisione giusta. Noi sorelle avevamo possibilità e forze di sopravvivere a periodi di carestia ben lunghi, mentre i poveri di quei villaggi non avevano nulla, se non la nostra carità.

Ma come avrei tenuto testa a madre Ippolita?

Dopo un periodo che mi sembrò lunghissimo, ma era forse passata non più di un’ora, una sorella bussò alla porta della mia cella.

“La madre ti attende in chiesa.”

Era giunta l’ora del mio giudizio. Il cuore in gola palpitava.

Madre Ippolita mi attendeva nel presbiterio, inginocchiata a pregare. Giunta che fui al suo cospetto, si alzò, mi guardò con occhi che tradivano rabbia a stento trattenuta.

“Ho saputo delle tue azioni. Come ti sei permessa?”

La sua voce stridula echeggiò nel vuoto della chiesa. Io tenevo il capo chino.

“Chi ti credi di essere, se pensi di poter disporre dei beni del convento così, liberamente?”

Trovai la forza di rispondere.

“C’era molta gente che moriva di fame, lungo la strada. Ho pensato…”

“Taci! Quello che hai fatto è inqualificabile. Avresti dovuto tornare subito al convento. Hai disobbedito alle mie disposizioni e sperperato i beni del convento. Meriti una punizione esemplare!”

Non replicai. Sovente il bene non viene compreso, lo stavo imparando a mie spese. Già mi immaginavo quale tipo di pena mi sarebbe stata comminata. Mi sarebbero stati assegnati lavori che di solito fanno gli inservienti? O peggio, sarei stata cacciata dal convento?

“E’ vero. Per la sua disobbedienza meriterebbe una pena esemplare. Ma non per i suoi gesti di carità.”

Una voce stridula ma potente proveniva dal fondo della navata centrale,sotto il nartece. Nella penombra si intravedeva una figura curva.

“Chi sei tu che importuni la badessa nel suo convento? Chi ti ha fatto entrare?”

Questi non rispose, ma si mosse lentamente, sino a che, uscendo dall’ombra, rivelò il suo volto.

Madre Ippolita cambiò immediatamente atteggiamento. Si curvò, quasi prostrandosi, e con la mano mi invitò a fare altrettanto.

“Eccellenza Reverendissima! Non sapevo…”

Era sua Eccellenza Monsignor Branchino Besozzi, Vescovo di Berghem. Si muoveva lentamente, pareva stanco, ma i suoi occhi brillavano.

“Via, Reverenda Madre! Mi stupisce constatare che le incombenze per la gestione del monastero vi impediscano di riconoscere una buona azione. Questa giovane novizia… come ti chiami, cara?”

“Delinda, Eccellenza. Delinda Arizzi.”

“Bene. Dunque dicevo, Delinda non ha fatto altro che mettere in pratica le parole di Nostro Signore. Ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere. Non è così?”

Annuii.

Madre Ippolita cercò, balbettando, di articolare una scusa.

“Ma, Eccellenza, quelle vettovaglie erano per il convento…”

Monsignor Branchino alzò la mano per farla tacere.

“Ho appena visitato i magazzini e le dispense del convento. Sono ben fornite, e dubito che altro cibo fosse veramente necessario alle nostre consorelle. Ho dei sospetti sul vostro operato, madre Ippolita. Ma voglio discuterne più tardi con voi. Ora congediamo questa novizia.“

Si avvicinò e mi fece alzare, che ero stata tutto il tempo in ginocchio.

“Delinda, la tua punizione per aver disobbedito alle indicazione della Madre Badessa è quella di recitare Compieta nella tua cella per sette giorni. Ma questa sera, dopo la recita dei Vesperi, ti citerò a esempio di carità, che va posta ad un livello ben più alto dell’obbedienza.”

Così dicendo mi strizzò l’occhio.

Ero imbarazzata. Mai mi era capitato di essere lodata per qualcosa che avevo fatto.

Mi recai nella mia cella e attesi sino a che non suonò la campana per i vespri.

Mi dissero che il vescovo e Madre Ippolita ebbero una lunga conversazione nel capitolo, e alla conclusione videro monsignor Branchino uscire con aria soddisfatta, mentre la badessa aveva un’aria così cupa che non si era vista nemmeno nei peggiori giorni del contagio. Non credo che fosse per causa mia.

Da quel giorno, vissi nel convento come in un limbo. Seguivo la vita ordinaria, ma né la Madre né le suore anziane mi rivolsero più la parola.

Le novizie provavano ammirazione, le consacrate riprovazione.

E così anche oggi, che mi sono decisa a scriverVi questa lettera, egregio padre mio.

Infatti mi rincresce deludere le Vostre aspettative ma non mi ritengo adatta alla vita monastica, fatta di sacrifici spesso utili solo alle brame della badessa, chiusa tra quattro mura senza poter vedere il tramonto scendere oltre i monti innevati, senza poter parlare con i bambini, con i vecchi. Il mio desiderio è di vedere il mondo, rendermi utile con la conoscenza delle erbe che gli studi qui mi hanno permesso , e ve ne rendo grazie.

Chiedo dunque licenza a voi di lasciare il convento appena questo sia possibile. Se mi è concesso, vorrei prendere possesso di quelle terre di cui mi avete parlato e mettere in pratica quanto appreso nella cura del corpo e dell’aspetto con le erbe. Mi rimetto in ogni caso alla volontà Vostra.

Che Iddio vi renda Grazia della Vostra generosità,

Vostra, con affezione, Delinda




(Note storiche: nel 1399 ci fu una delle numerose ondate di peste nera che colpì l’Europa nel Basso Medioevo; nei tre anni successivi si dice che persero la vita circa ventimila persone nel territorio di Bergamo. Il vescovo di Bergamo, Branchino Besozzi, fu conosciuto per la sua generosità verso la diocesi e verso i bergamaschi. Morì nel luglio 1399 ma, per ragioni narrative, gli ho allungato la vita di un altro anno. Il monastero di San Tomè ospitava un convento femminile, che fu poi soppresso nel 1407 a causa di scandali di ordine morale e finanziario.)