Una capra in meno


Avvenne un tempo che Nòna, ancora nella sua giovane età, girovagando per la Valle, si trovò improvvisamente senza denari. Le erano rimasti solo pochi soldi, per qualche  pagnotta e un tocco di formaggio, sufficienti per qualche giorno. La sua intenzione era di risalire la valle sino a superare la Goggia e raggiungere Plassa.  Perché i suoi scopi si  avverassero era peró necessario che disponesse di denaro. Si mise dunque  cercare lavoro nei pressi di Dzogn. Le dissero di provare da Gesualdo, mercante e proprietario di numerosi capi di bestiame, che cercava guardiani per accudire un gregge di capre.

Nòna andò e si propose per il lavoro.  L’uomo la squadrò da capo a piedi.

“Non mi pari una contadina, sei certa di voler fare questo lavoro?”  chiese con fare sprezzante.

“Ho già condotto animali, da giovinetta. E sono abituata a star sulla montagna, se è questo che volete sapere.” rispose in modo altrettanto risoluto la donna. 

“Sta bene - rispose Gesualdo - lavorerai per me, prima però dovrai superare una prova molto semplice. Ci sono lupi e orsi che potrebbero predare le mie capre, perciò ho bisogno di guardiani che sappiano contare, oltre che non temere di incontrare una belva. Ti chiedo di contare quante capre ci sono in questo recinto.”

Nòna fece per andare a rimuovere la sbarra che chiudeva il recinto, ma fu interrotta dal padrone.

“Aspetta, così son buoni tutti! Contarle una a una quando escono o entrano è semplice. Voglio che le conti senza farle uscire dal recinto.”

La ragazza stette per qualche attimo immobile, perplessa. Da che mondo e mondo la conta delle bestie si faceva quando la mattina le si faceva uscire per il pascolo o la sera quando le si richiamava. Provò a contarle, ma le bestie si muovevano e presto perdette il conto.

Quelle capre sembravano tutte uguali!  Doveva trovare un altro metodo, doveva fare in modo che fossero un po’ diverse.


Dalle ceneri di un fuoco spento trasse un tizzone, e con esso fece a ogni capra che contava un segno sul muso, così che non rischiasse di contarla di nuovo. Dopo aver controllato di non averne lasciata  nessuna, diede la risposta al padrone.

“Sono trentatre capre nel recinto, signore.”

Egli la guardò, sforzandosi di dissimulare la sorpresa.

“Sei in gamba, ragazza. Ve bene, accudirai alle capre su nei pascoli alti, per tutta la bella stagione. Ogni giorno manderò un uomo a prendere il latte che mungerai dalle capre.

Stai bene attenta. Se al ritorno avrai perso anche una sola capra, dovrai lavorare per me  tre anni tre mesi e tre giorni. Se riporterai tutto il gregge, ti pagherò.”

“E quanto mi pagherai?” 

“Tre grossi, tre denari e tre soldi.”

Nòna acconsentì.

Salì ai pascoli della Pianca col gregge e con due cani da pastore, e si stabilì nella grotta che fungeva da rifugio.

Durante il giorno, mentre curava le capre, masticava un pezzo di  raìs dulza e osservava il cielo mutevole, magnificando Dio per le Sue opere. La notte, chiuse le capre in un barech, il recinto di pietre e posti i cani ai due lati dell’ingresso, meditava sulla grandezza del Creato e sulla insignificante piccolezza dell’uomo.

Era sola sulla montagna, con la sola compagnia dei due cani, e il quotidiano appuntamento col ragazzo che prelevava il latte da lei munto per portarlo alla casera in basso dove l'avrebbero trasformato in formaggio.

“Ci sono disordini in paese - disse un giorno il ragazzo - hanno bruciato delle case e malmenato un paio di uomini. Meglio starsene qui sull’ alpe.” 

Nòna pensó che l’ uomo non perdeva mai occasione per mostrare il suo egoismo e la sua malvagitá, e quanto piú si credeva nel giusto e benedetti dal Signore, tanto piú il suoi delitti erano efferati e crudeli.

Un giorno, era giá meriggio inoltrato, e il sole si apprestava a gettare un velo aranciato sui versanti della valle esposti a occidente, dal sentiero vide avvicinarsi delle figure. Erano un uomo e la sua compagna, che in braccio portava un infante, mentre altri due bambini li seguivano.  Nona zittí i cani e andó loro incontro. Gli occhi degli adulti erano  atterriti e stanchi, i due bimbi non si reggevano in piedi.

“Abbiate caritá per noi - esordí l’ uomo - Avreste un po’ di latte per sfamare i nostri bambini? Son tre giorni che giriamo  per la valle, e abbiamo mangiato solo poche gallette. Per fortuna l’ acqua non manca.”

Nóna li fece  accomodare nella grotta, ravvivó il fuoco, offrí loro  pane e formaggio, latte per i bambini e un sorso di vino per  l’ uomo e la donna.

“Cosa vi porta cosí lontano da casa?” Chiese Nòna, sorpresa per questo insolito incontro sulle pendici dell’ Alpe.

“Non abbiamo piú casa, ne bestiame. Non abbiamo piú nulla.   E questo a causa del mio orgoglio.”

L’ uomo,  che portava il nome di Albino,  raccontò di essersi scontrato con un signore del suo paese. Questi pretendeva che gli si cedesse il passo.  Ma l’uomo era intento a governare una vacca, per di più irrequieta, e aveva risposto con male parole al signore.  Questi lo aveva minacciato, ma Albino non gli aveva dato peso.

“ Pochi giorni più tardi un manipolo di uomini si presentò alla porta di casa. Mi presero e malmenarono, fecero uscire mia moglie e i figli dalla casa e le diedero fuoco. 

Ci ingiunsero di non mettere più piede nel villaggio, che altrimenti l’avremmo pagata con la morte. Furono sicuramente mandati dal signore che avevo offeso. 

Siamo rimasti rintanati in un fienile per due giorni, poi ci siamo messi in viaggio. Oltre Valfundra  vi è un borgo dove vive un mio cugino, ci ospiterà lui, ma i bambini hanno fame e sono stanchi.”

“Questa notte dormirete qui - rispose Nòna - non è granchè, ma c’è riparo per tutti e la legna non manca. Il fuoco vi riscalderà e renderà più leggero il vostro animo. Domani vedremo cosa posso fare per voi.” 

La famiglia non smise di ringraziare sino a quando la notta calò sulla fiamma del focolare. Nóna offrì loro una tisana preparata da lei con le erbe dell’ alpe, artemisia, melissa, menta e verbena, per conciliare il sonno.

Il giorno dopo Albino e la sua famiglia si prepararono a lasciare Nòna.

“Aspettate!” disse loro, e entrata nel barech scelsa una capra femmina, la legò e la porse ad Albino.

“Tenete, darà latte per i vostri figli e quando vi sarete sistemati potrete venderla.”

La famiglia fu sorpresa per il dono, e abbozzarono un rifiuto. Si capiva però che il latte della capra faceva loro comodo.

“Ma tu come farai? La capra non è certo tua, dovrai pagarla.”

“Oh, non preoccupatevi per me, ho del denaro messo da parte per momenti come questi.”

Albino la guardò poco convinto.

“Andate, ora. Tra breve arriverà il ragazzo del latte e non vorrei che vi vedesse qui.”

Mamma e papà raccolsero le loro cose, diedero la cavezza al più grande dei loro figli e si misero in cammino, voltandosi di continuo a salutare Nóna. 

“Ti saremo sempre grati per la tua ospitalità. Se un giorno ci rivedremo ti ricompenseremo per il bene che ci hai fatto.”

“Aspetta, non mi hai detto il nome di quel signore così permaloso.”

“Si chiama Gesualdo, Gesualdo Stuardi. Ti auguro di non averci mai a che fare.”


Nòna soffocò una risata. Era forse un segno del destino che un parziale rimborso di quanto era stato sottratto ad Albino e alla sua famiglia provenisse dalle proprietà dello stesso Signore mandante di quel sopruso. Ma mentre salutava con la mano per l’ultima volta i suoi estemporanei amici pensò che si era andata a cacciare in un bel guaio. Come avrebbe rimborsato la capra mancante? 

Doveva pensare a una soluzione, e in fretta, che la stagione bella volgeva al termine.

Passò giorni a rimuginare, immaginando scenari in cui lei fuggiva, lasciando il gregge incustodito. Ma così rischiava di avere alle calcagna gli uomini di Gesualdo, che  non sarebbero stati teneri con lei. Oppure avrebbe addotto come scusa l’attacco di un lupo o un orso, o la caduta in un dirupo. Ma niente, tutte queste scuse non l’ avrebbero salvata dallo stare al suo servizio per  tre anni tre mesi  e tre giorni. Rimpiangeva di aver accettato  l’incarico di guardiana di capre, ma non rimpiangeva di aver aiutato quella famiglia. Piena di questi pensieri, vedeva i giorni scorrere, e il mattino farsi piú pungente, e le ombre della sera allungarsi sempre piú. 

Venne il giorno  della discesa dall’ alpeggio. Nóna era ormai rassegnata a passare un bel po’  di tempo a servizio di Gesualdo, perché non le era riuscito di trovare una soluzione all’ impiccio della capra mancante. Peró era serena, perché sapeva di aver agito giustamente.

Gesualdo fu burbero e spiccio con lei. 

“Avanti, porta le capre nel recinto, e contale ad alta voce, così che possa controllare.”

Fece come le fu detto e cominció.

“Una, due, tre, quattro…”

Doveva almeno inventarsi una scusa, non sarebbe servito ad alleggerirle il giogo che l’ avrebbe legata a Gesualdo per  tre anni, tre mesi e tre giorni, ma almeno…

“Diciassette, diciotto, diciannove, venti…”

… almeno non sarebbe stata costretta a dire la veritá, che aveva aiutato una persona da lui perseguitata.

“Ventinove, trenta … trentuno e trentadue…”

“E trentatre. Bene, le hai riportate tutte, ottimo lavoro!” esclamò soddisfatto Gesualdo

Nóna rimase a bocca aperta. Com’ era possibile?

“Sono giuste?”

“Certo, sono trentatre.”

“Padrone, hai contato anche tu? Sono trentatre?”

“Come te lo devo dire?  Adesso non continuare a tediarmi, altrimenti mi passerá la voglia di pagarti.  Stai qui un momento, che vado a prendere il denaro.”

Nóna era stupefatta. Era certa di aver donato una capra alla famiglia di Albino, perció avrebbero dovuto esserci trentadue capre, non  trentatre.

Da dove era spuntata quella capra?

Gesualdo tornó con una borsa.

“Come pattuito vi sono tre grossi, tre denari e tre soldi. Puoi controllare se vuoi.”

Nóna prese la borsa tintinnante senza dir nulla. Quei soldi le avrebbero permesso di proseguire il suo viaggio.  Ma la capra? Le contava ogni sera, su all’ alpe, quando rientravano nel barech, ed erano sempre trentatre, e da quando aveva dato la capra ad Albino erano sempre state  trentadue.  

Mentre si allontanava veloce, per un irrazionale timore che quella della capra in più fosse solo un incantamento dal quale Gesualdo si sarebbe presto avveduto, continuava a cercare una spiegazione a quanto le era accaduto.

Ma spiegazione non v’era. Semplicemente, lo sguardo del Signore si era posato sul gesto di Nòna, che aveva tentato di riparare a uno sgarbo di un uomo ingiusto nei confronti della Giustizia del mondo. Egli si era compiaciuto del gesto di generosità e l’aveva premiato con il dono di una capra.


(liberamente tratto da una leggenda medievale)


Tarassaco

Credo che qualsiasi bambino abbia ben presente questa pianta. I fiori giallo acceso spiccano nel prato, lo illuminano come tante stelle. Le infruttescenze globose che si liberano dal gambo con un soffio di vento o un  fiato di bimbo, per poi veleggiare come piccoli paracadute, ancora stupiscono i più piccoli.

Sono comuni, questi fiori, in tutti i prati, e sia i fiori che i semi volanti caratterizzano il paesaggio a volte sino a estate inoltrata. Il colore giallo li fa sembrare dei piccoli solo, non è un caso che appartengano alla famiglia delle Asteracee - aster significa stella.  Ecco che ricorre il legame tra i fiori e il firmamento. Ma se con le stelle alpine il pensiero corre alle gelide notti d'alta quota, quando la luce delle stelle basta a illuminare i ghiacciai, i fiori di tarassaco evocano piuttosto le pigre sere della tarda primavera,  durante le quali ci si dilunga nei prati a parlare di futuro e d'amore.

Si consuma, il tarassaco, in molti modi. Mia nonna me lo proponeva come ingrediente del minestrone, che solo da lei accettavo di consumare.
Questa pianta ha molti nomi, ma una sola personalità. Tenace, ben piantata nella concretezza del prato, sopporta le ingiurie di bambini e adulti, pronta a offrire in cambio lo splendore delle sue corolle.

Libri che chiamano altri libri

Si sa che Herman Melville fu ispirato nella sua opera “Moby Dick” dalla lettura del libro Narrazione del naufragio della Baleniera Essex di Nantucket che fu affondata da un grosso Capodoglio al largo nell'Oceano Pacifico, scritto da uno dei protagonisti. Egli ci aggiunse poi la sua esperienza di marinaio, realizzando uno dei romanzi più potenti come creazione dell’immaginario.
Senza Walter Scott e i suoi romanzi, la stesura de “I promessi sposi” , per la quale Manzoni si avvalse anche di ricerche sui documenti dell’epoca in cui era ambientato, non sarebbe diventato il primo romanzo storico italiano e uno dei fondamenti della lingua italiana.

Nel corso degli anni mi sono trovato a far prevalere le mie preferenze in fatto di libri a favore della saggistica. Amo la narrativa, ma mi ha recentemente portato alcune delusioni per via di libri decantati come capolavori, ma che alla fine dei conti si rivelavano poco più che accettabili, senza che intaccassero l’animo del lettore come invece fanno opere come quelle incluse in questo elenco.
La saggistica invece, se ben selezionata, raramente delude. Se sei alla ricerca di risposte, o di semplice conoscenza, e scopri la chiave necessaria a cogliere il messaggio, le informazioni che l’autore ha voluto infondere nelle parole scritte, allora scatta tra te e il libro una relazione intensa, quasi amorosa.

Quell’opera diventa punto di riferimento, leggi la realtà - non tutta, solo quella porzione che copre le tematiche in questione - alla luce della conoscenza racchiusa in quel libro.

E da esso ti lasci ispirare, sia che tu stia coltivando una storia o no.

Psalterio di Eadwin - Canterbury - XII sec.

Così è accaduto a me con “De Arte Illuminandi” manuale di tecniche di miniatura scritto in Italia nella seconda metà del XIV secolo. Trovato in una libreria di remainders, la sua lettura ( parziale, a salti, non ha la trama di un romanzo, è un trattato!) ha depositato in me un grumo di conoscenza, che poi è servito per la realizzazione del racconto “Al monte” della raccolta “Alla ricerca dei draghi” che narra le vicende di un monaco mandato a recuperare del rosso cinabro presso un’altra abbazia.


Spesso accade, anche senza avere storie nella faretra, che alcuni libri lancino frecce che colpiscono e lasciano il segno. Così è stato per “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estes, che nella descrizione della Donna Selvaggia apre la stura a decine di possibili narrazioni , e che mi riprometto di riprendere in mano con la speranza che almeno una di queste narrazioni possa diventare mia.
Rethorica Antiqua - 1215  - Boncompagno da Siena

Accade anche nella stesura di Madreselva che debba confrontarmi con manuali e testi storici, per corerenza narrativa e per trarre anche in questo caso ispirazione. Mi sono stati cari, nel tempo della scrittura della storia di Madreselva, il primo libro della “Storia della Val Brembana” di Felice Riceputi, e l’Erbario Volgare del 1522.

Come ho già detto in questo blog, grande influenza nelle mie narrazioni ha avuto la leggenda di Fanes, la saga di un popolo sfortunato che rappresenta un archetipo nelle leggende e nella letteratura fantastica di montagna.
Copia originale in mio possesso - del 1951


Non sai mai cosa puoi trovare nei libri. Storie che aspettano solo di essere scoperte e narrate, o frammenti di verità e notizie che puoi comporre a piacimento per creare nuove storie, così come con le note si creano nuove melodie.


Primula

Sorprende, in questi tempi ancora freschi, andar per boschi  spogli, dove il colore dominante è quel  grigio bruno  dei tronchi e delle foglie a terra, e venire sorpresi dall'occhieggiare bianco dei bucaneve, e quello giallo pallido delle primule.


Avvisi di primavera, forse un po' precoci,  si conquistano un posto nell'orizzonte visivo della natura a noi vicina, soppiantando gli elleboro,  prima che lo scoppiare della stagione ne faccia diluire i colori dei loro fiori nel movimentato arazzo multicolorre dei germogli e delle nuove fioriture.
Primula come speranza di primavera, come rugiada senza brina, acqua senza ghiaccio.

"Io servo la regina delle fate
irroro di rugiada i suoi cerchi d'erba
Le primule alte le fanno da scorta
le macchie sui loro mantelli dorati
sono rubini, doni di fate,
néi che diffondono profumi inebrianti
Ora vado a raccogliere stille  di rugiada
perle da appendere all'orecchio di ogni primula."
 ( Sogno di una notte di mezza estate, attoII, sc.I, W.Shakespeare)


I folletti ne mangiano foglie e fiori  in insalata, o ne fanno tisane.  Si usava un tempo per emicranie e reumatismi

"La primula  è calda e ricava tutta la sua viridità dall'ardore del sole. [...] La primula trae le sue forze  principalmente dal sole e per  questo che calma la melanconia nel cuore dell'uomo."
( Libro delle Creature, Ildegarda von Bingen)


La nascita delle Stelle Alpine

Una leggenda romantica e tragica, riscoperta tra le Storie della Madreselva 

Nei tempi lontani della nostra storia, le valli erano abitate da pochi uomini riuniti in villaggi, e da altri esseri molto più antichi di loro.
Tra le montagne l’eco della Creazione non si era ancora smorzato, e ciascuno viveva di quello che la montagna, i suoi boschi e i suoi prati potevano offrire.


Esther e Lupo vivevano insieme, erano innamorati.
In ogni spazio della loro casa, in ogni oggetto, nei gesti che essi compivano si respirava il loro amore, la concordia, la pace.
Esther filava e tesseva la lana, la sua maestria era tale che persino i Signori da altre valli le commissionavano stole, mantelli, calzari e indumenti. Ella rendeva il filato morbido e lucente.
Per vezzo e per necessità indossava sempre una cappa di morbida lana, resa bianchissima dalla lisciva.
Lupo, tenendo fede al suo nome, era cacciatore. Percorreva le valli in lungo e in largo, cacciando per nobili e mercanti che ambivano ad avere sempre selvaggina a tavola.
Ogni mattina diceva a Esther: “Vado a caccia, tornerò dopo il tramonto.” E lei lo sapeva nei boschi intorno al villaggio, a caccia di caprioli, o sulle pendici rocciose a inseguire camosci.
Oppure: “Parto per inseguire un preda, non so quando tornerò” Esther capiva che doveva cacciare un lupo o un orso, che avevano depredato il bestiame di qualche contadino o minacciato la pace di qualche piccolo borgo.  E quelle notti da sola non finivano mai.
Ma appena ve ne era l’occasione, nella stagione calda, i due amavano trascorrere le serate nella piazza del villaggio, a discorrere con amici e conoscenti, o andare nel borgo vicino, ove feste e mercati erano più frequenti. Al ritorno, a notte inoltrata, sedevano sull’uscio di casa, e osservavano le stelle, che ruotavano in silenzio nel cielo.
Una mattina Lupo disse a Esther: “Parto per cacciare camosci sopra i prati del Pegherol, tornerò questa sera.” Ella lo salutò e iniziò il suo lavoro quotidiano. Il giorno trascorse, e il tramonto colorò di rosso le cime intorno al villaggio. Lupo non era ancora tornato, ma Esther non se ne preoccupò. Spesso la preda lo conduceva per sentieri lunghi da percorrere.
Il manto della notte coprì di oscurità la valle, ma Lupo non rientrava. La preoccupazione di Esther cominciò a farsi insistente, anche se ella cercava ogni ragione per giustificare il ritardo.
Trascorse la notte nel dormiveglia, il capo appoggiato al tavolo ove una lanterna restava accesa, pronta per il rientro di Lupo.
L’aurora la vide sveglia, e poco dopo, indossata la candida cappa, Esther si avviò verso  la zona di caccia.


Raggiunse i prati, ma del suo uomo non v’era traccia.  Prese a salire, mentre il cuore batteva sempre più veloce nel suo petto. Superò il limite del bosco, ove i pini cedono il posto a prati chiazzati qua e là da cespugli di mughi e radi larici contorti.  Lo sguardo poteva spaziare su ampi versanti erbosi, e cime rocciose punteggiate di chiazze di neve. Nessun segno di Lupo o del suo passaggio.
Per ore cercò su quelle montagne,  invocando il nome del suo uomo a gran voce, di tanto in tanto. Solo l’eco le rispondeva.
Seguendo una esile traccia di sentiero, tra gli sfasciumi, vide improvvisamente una sagoma bruna, immobile, che ostruiva il passaggio. Si avvicinò, era un camoscio,  moribondo, con il fianco squarciato da una freccia.  Riconobbe quella freccia. Il braccio che aveva teso l’arco che la lanciò era quello di Lupo.
L’angoscia l’assalì. Mai era successo che una preda fosse lasciata agonizzante, senza tentare di porre fine alle sue sofferenze affrettando l’ultimo respiro. Lupo non le avrebbe rifiutato il colpo di grazia, se non fosse successo qualcosa a lui.
Il sangue dell’animale indicava a ritroso da dove provenisse. Esther fu tentata di correre avanti, seguendo le tracce. Ma prima doveva compiere un atto di pietà. Pose la sua testa accanto a quella del camoscio, mormorò una preghiera di perdono, e pose fine alla sua vita con un taglio netto alla gola dell’animale.
Proseguì quasi correndo sino alla sommità del monte,  là il sentiero si addentrava tra rocce affilate e umide.  Si arrampicò, con mani e piedi,  sugli scomposti anfratti della cima. E lo vide.
Il corpo scomposto era in un buco tra le rocce. Immobile. Morto. Irraggiungibile.  Esther urlò tutta la sua  disperazione. Urlò, ma nessuno poté udirla, troppo lontane erano le case degli uomini.
Cercò di raggiungere Lupo, ma le pareti rocciose erano troppo ripide, e lo spazio angusto. Provò ad allungare un braccio, ma le sue dita non riuscivano neppure a sfiorarlo.
Stette a lungo in ginocchio , piangendo lacrime su di lui, gridando il suo nome, imprecando contro il destino che si era frapposto tra loro, impendendole di amarlo ancora, per sempre.
Le mani sanguinavano per le rocce affilate, il cuore era in tumulto, la mente confusa. Pregò perché venisse tolta anche a lei la vita, che senza Lupo il sapore del quotidiano da dolce che era si era fatto amaro.
Il tempo passava. Sulla montagna c’era solo lei, a custodire quel corpo. Il giorno si avviava al declino.
La ragazza cercò dei fiori da gettare sul corpo dell’amato, ma intorno a lei solo rocce e erba resa grigia dalla polvere. Sollevò lo sguardo verso il cielo che si stava riempiendo di stelle. Pensò: “Oh, potessero le stelle scendere e coprire il mio uomo dormiente. Perché io, di fiori così belli, non ne ho trovati.”
Con il buio giunse il freddo, ma Esther non se ne curava. Il suo pensiero vagava tra i ricordi degli anni passati insieme a Lupo, delle risate, dei baci, dei milioni di passi percorsi.
Pensava, rivolgendosi a lui:
“Mi accorgo che tutto il tempo passato insieme
è stato allo stesso momento
tempo di semina
e tempo di raccolto.
Abbiamo seminato la nostra fedeltà
non solo alle nostre anime
all’essenza stessa dell’Amore
e abbiamo raccolto Gioia.”
Consolata da questo pensiero, Esther si stese sull’erba gelida, diede un ultimo sguardo alle stelle, coprì il capo con la sua candida cappa, e si addormentò per sempre.

Nella notte, la montagna era tornata silenziosa, immobile.

Lentamente le stelle, che avevano udito l’invocazione di Esther, scesero sulla Terra. Sfiorarono la bianca cappa della ragazza e si distesero nei prati intorno, intenzionate a rendere omaggio ai due giovani e al loro amore.
Da allora le stelle alpine impreziosiscono le cime delle montagne con i loro fiori, dai petali candidi e soffici come la cappa di una giovane sposa.




Piantaggine

Da piccolo pensavo che quelle spighe potessero essere l'equivalente delle pannocchie di mais per gli insetti, o che, come nei film che hanno formiche e altri minuscoli esseri come protagonisti, potessero essere usati come spade e lance ( rispettivamente la piantaggine maggiore e quella lanceolata).
Mio zio raccoglieva le spighe mature lungo le sponde erbose del Naviglio, per integrare il menù della sua voliera, o per  spargerne un po' di fronte all'ingresso del negozio e osservare, nei periodi di calma, i passeri avvicinarsi per beccare quei minuscoli semi.
La trovi nei bordi dei sentieri, nei prati polverosi  come era il campetto dell'oratorio, indifferente al nostro calpestio ma purtroppo  vittima dell'ozio  dei pomeriggi estivi, durante i quali si fischiava con un filo d'erba teso tra i palmi delle mani, si strappavano i polloni ai pioppi e si sgranavano quelle piccole pannocchie  impolverate.

Piantaggine maggiore
Ha proprietà antiinfiammatorie, cicatrizzanti e antibiotiche.


Ma è una storia fantasy?



Quando incappai nell'universo tolkeniano,  più o meno all'età di quindici anni, nella biblioteca della mia città, avevo già fatto conoscenza con Nani, elfi e salamandre. Era questo il titolo che identificava il capitolo sul fantasy nel mitico "Manuale delle Giovani Marmotte".
Insomma, avevo già letto un po' di romanzi fantasy, ma l'incontro con il mondo della Terra di Mezzo mi aveva folgorato, Perchè non si trattava di leggere delle storie, ma di scoprire un mondo. Un mondo fantastico, certo, popolato da esseri speciali, ma non sfacciatamente magico.
Scoprii più tardi che il Professore si richiamava all'epica antica, alle leggende del Nord, e persino i linguaggi inventati traevano spunto dagli antichi idiomi parlati in Europa.
E questo me lo rendeva ancora più affascinante.

Le storie fantastiche abbondano tra  i racconti e le leggende tramandate nelle culture montane. Una tra tutte, forse tra le più complete e organiche è la Leggenda dei Fanes.  Si narra di un popolo, alleato con le marmotte, che costretto a seguire le mire espansionistiche di un re, finisce per scomparire.
Nella storia e nei racconti a essa correlati, vi è abbondanza di streghe, personaggi fantastici, nani e animali parlanti, tanto che lo si potrebbe definire un fantasy 'ante litteram'.



Sedotto da questa ultima narrazione, ne ho tratto spunto per il primo abbozzo del romanzo  "Madreselva", ma presto mi sono reso conto che il mio lavoro avrebbe dovuto soggiacere ad alcune leggi fondamentali  del fantasy:
1) la sospensione dell'incredulità: ogni volta che leggo un qualsiasi tipo di narrativa, o assisto ad un'opera teatrale o cinematografica sono disposto ad accettare qualsiasi situazione che nel nostro mondo sia  semplicemente improbabile o impossibile ( ad esempio , che si possa viaggiare nel tempo) affinchè possa fruire di quell'opera di fantasia. E' necessaria una coerenza nella narrazione e una adesione al canone di riferimento perchè la sospensione sia effettivamente efficace.

2) la creazione di un mondo: le opere fantasy non sono ambientate nel mondo "reale" quello che noi abitiamo. Esistono in mondi alieni, tuttalpiù in realtà parallele alla nostra ma nascoste ( come è il caso della saga di Harry Potter). Io intendo raccontare del nostro mondo, della Storia di una specifica valle. quella attraversata dal fiume Brembo,  in un periodo preciso, la prima metà del XV secolo.

3) la classificazione:  la letteratura di genere è sottoposta a una classificazione che incasella ogni opera. Non volevo correre il rischio di essere etichettato come fantasy solo per aver introdotto un po' di magia (che, a ben vedere, forse c'è).


 Quanto di fantastico si può trovare nelle storie di Madreselva è quello che percepivano le donne  e gli uomini dell'epoca, che vivevano qualsiasi fenomeno non facilmente comprensibile come  proveniente da forze sovrannaturali, perlopiù guidate dagli spiriti malvagi.

Pertanto non troverete storie fantasy. Storie fantastiche, sì. Leggende che venivano tramandate  a ogni stagione, imbevute del fantastico che popolava il mondo medievale, e a cui si ricorreva quando non si era in grado di spiegare i fenomeni naturali. Quelle le troverete.

Ma il mondo di Madreselva non è un mondo fantasy. E' il mondo delle nostre radici, della nostra storia che in quei secoli ha visto decine di guerre civili insanguinare le valli e le pianure  di tutto il nostro Paese, che ancora non si riconosceva come Nazione.

Per raccontare una storia si deve creare un mondo. Così dice Umberto Eco: "per raccontare bisogna innanzitutto costruirsi un mondo, il più possibile ammobiliato sino agli ultimi particolari".
Intento di questo blog è quello di essere di supporto al romanzo per ri-creare il mondo di Madreselva.


I luoghi

In questi ultimi tempi mi è apparso evidente, come quando soffi sulla cenere grigia di un camino e splende vivida la brace ancora accesa, che l'ispirazione per le #storiedellamadreselva non proviene (solo) dalla letteratura che mi è capitata tra le mani, ma soprattutto dai luoghi che, specialmente in Val Brembana, Val d'Aosta, Val di Fassa, ho scoperto. Uno in particolare, un agriturismo molto conosciuto in Valle, è stato catalizzatore del primo nucleo della storia principale di Madreselva, che mi auguro di potervi offrire nel corso di questo duemilaventi.