Il mito delle conoscenze di un tempo


 Immaginate di abitare a Milano e di dover andare a Bergamo per affari. Che mezzo prendereste?

Se vi venisse proposto di andare a dorso di mulo, oppure a piedi, accettereste?   

Eppure è così che si muovevano nel Medioevo, solo i più ricchi si potevano permettere i cavalli.

Credo che la nostra scelta si orienterebbe sull'autovettura, o sui servizi di autobus o di treno.

Questi mezzi presentano rischi molto più alti del semplice camminare: un corpo lanciato a velocità tra i sessanta e i cento chilometri orari, se incontra un ostacolo non fa una bella fine. Eppure sono rischi che siamo disposti a correre, pur di risparmiare tempo e evitare un viaggio scomodo.

Lo stesso nella pulizia della casa. Se vi chiedessero di rinunciare a tutti quei prodotti chimici per la detersione del corpo, dei vestiti e delle superfici e proponessero di tornare a lisciva e acqua fredda, lo fareste? Forse qualcuno potrebbe essere anche disposto a realizzare il sapone in casa, ma credo che la maggioranza declinerebbe l'invito.

E ancora, rinuncereste al riscaldamento a gas a favore di un fumoso fuoco in mezzo alla stanza, come si usava nella maggior parte delle case del medioevo?

Trovo quindi incomprensibile pretendere di fare uso di piante e erbe e altre sostanze non artificiali allo stesso modo in cui si usavano nei secoli fino al XVIII.

Circolano nel web centinaia di  metodi infallibili per guarire questa o quella malattia, decine di pagine che esaltano le qualità di una pianta o di un fungo, nugoli di bloggers che fanno riferimento a come ci si curava una volta, a come una volta non c'era tutta questa chimica, e che invocano il ritorno a un tempo antico, sovente identificato con il medioevo. in cui tutto era molto più "naturale".

I metodi e le medicine proposte dai grandi studiosi dell'epoca derivavano dalle competenze proprie di QUEL periodo storico.
Insieme a brillanti intuizioni confermate poi da ulteriori studi condotti con metodo scientifico, molte ricette contenevano dei veri e propri svarioni o proponevano ingredienti  di comprovata inutilità o, peggio, velenosità.

"Chi ha l'itterizia metta un diamante nel vino o nell'acqua: guarirà."

"L'uomo colpito da demenza o da follia mangi spesso e a sufficienza le carni di balena, aggiungendo soltanto del pane, e ritroverà le sue facoltà mentali."

"Chi soffre di calcoli prenda del prezzemolo, aggiunga un terzo di sassifraga e faccia cuocere nel vino, filtri attraverso una benda e ne beva in un bagno molto caldo."

Ildegarda von Bingen ( 1098-1170), Libro delle Creature 


Sono scritti di Santa Ildegarda, nota per la sua erudizione e per aver raccolto tutte le conoscenze  mediche e botaniche del suo tempo. Per quanto possa apprezzare le sue opere, non credo che per curare l'itterizia, o la demenza o i calcoli mi metterei a seguire i suoi consigli.

Beninteso, ciò non vuol dire che la cura con le erbe non sia efficace. Ma occorre valutare caso per caso, e fare riferimento alle conoscenze SCIENTIFICHE di OGGI, e non dei ciarlatani che si spacciano per guru.

In "Madreselva", il romanzo che mi propongo di rendere pubblico a breve, riporto la saggezza degli erboristi di quel periodo, la prima metà del XIV secolo, ma vorrei fosse chiaro che questo non avvalla nessuna delle ricette o degli usi di piante descritti nel libro. 
Il mondo naturale è ancora pieno di segreti che possono aiutarci a vivere in armonia. Si deve studiare seriamente con gli strumenti infinitamente più potenti che abbiamo a disposizione oggi per scoprirli, tuttavia.


Madreselva - Incipit



Come ogni notte, gli alberi oltre il confine del bosco erano neri e immobili. Lontano, le chiome si confondevano con le rocce ugualmente scure. 

Quelli accanto al villaggio invece ardevano del riflesso delle fiamme che stavano consumando stalle e abitazioni. Le vacche, le capre, gli uomini, tutti sopraffatti dal terrore, invadevano le strette vie, si intralciavano, calpestavano, in una confusione che era più che mai alimento prediletto della paura.

Alcuni avevano osato porre un freno all’ondata ghibellina, ma poco poterono qualche falcione e un paio di scuri contro una masnada di guerrieri armati finanche di balestre.
Ora i difensori giacevano a terra, senza più respiro. Delinda aveva evitato zoccoli e corna degli animali in fuga per giungere al luogo dove lo scontro si era fatto più crudo, la piazza al centro del villaggio. Temeva per Viviano, accorso a difendere le poche cose del villaggio.
Quello che vide la paralizzò.

Nello spiazzo c’erano corpi afflosciati come otri vuoti, la terra era nera dal sangue rappreso.
Il suo fidanzato era appoggiato a un tronco, il suo corpo squarciato da ferite mortali. Tentava una debole difesa agli attacchi di un nemico in fronte a lui, stringendo un corto baselardo. Ma l’assalitore, in piedi, parò facilmente i colpi e, quasi noncurante, affondò la spada nel ventre del giovane.

Delinda urlò, sentendo in tutto il suo essere la devastazione del corpo del suo amato. 

L’omicida alzò lo sguardo. Forse non si aspettava di vedere una donna ritta, immobile, gli occhi penetranti i suoi. Forse il dolore letto nel volto della ragazza era troppo forte da sopportare. Fu dunque l’uomo il primo a rivolgere gli occhi da un’altra parte. 

Un momento dopo Delinda si riscosse e si avventò sul nemico con la stessa forza del temporale. Ma l’assassino era svelto di spada, e fece compiere al suo ferro un largo arco, a circoscrivere uno spazio entro il quale non era prudente accostarsi.

Quel fendente raggiunse Delinda sulla guancia, scavando un solco profondo e pulsante. Ella si sentì mancare per il dolore. Lo slancio verso l’uomo si disarticolò in un ruzzolare scomposto che la portò con la faccia per terra.

Prima di perdere i sensi vide uno di quegli assassini avvicinarsi al corpo di Viviano e cercare di strappargli il baselardo dalle mani, ma il suo capo lo fermò. 

«Lascia! Abbiamo fatto abbastanza qui. Andiamo!»


Si risvegliò mentre il chiarore dell’aurora incendiava i bordi delle montagne. I pagliai e le abitazioni colpite erano diventati brace palpitante, così come lo era la sua guancia.

Si trascinò accanto a Viviano. Un rantolo intermittente era il solo segno di vita in quel corpo martoriato.

«Viviano! Viviano!»

Il dolore diede forza a Delinda, che si sedette accanto a lui e raccolse in un abbraccio il corpo senza forze.

Il calore della fanciulla sospese per un momento la discesa nell’oblio del giovane. Aprì gli occhi e riconoscendola tentò di allargare il volto in un sorriso.

Lei ricambiò, mentre le sue lacrime lavavano il sangue dal volto tumefatto dell’amato. Mentre teneva fissi gli occhi su di lei, il respiro cessò. 

Un sottile lamento nacque dal cuore di Delinda, si espanse nel suo petto, uscì dalla bocca come un roco singhiozzo, un urlo interrotto.

Avevano ucciso il suo amato. I sogni che insieme avevano sognato, le speranze coltivate, il lavoro per costruire un futuro insieme, cancellati nell’attimo di un agguato. Il dolore la prese tremendo, pressante. Le invase la mente lasciando che solo un acuto pensiero salisse alla coscienza.

Vendetta.

Prese il baselardo  di Viviano e lo strinse tra le mani fino a sanguinare.

Avrebbe vendicato il suo Viviano.




Il capitano e la fanciulla


Il sole aveva cessato di indorare l’acqua del lago e si era coricato dietro i monti.

L'uomo aveva posato la spada, la punta tra le onde a raffreddare l’odio e il sangue che la ricoprivano.

Era stanco.

L'erba sotto il suo corpo era fresca, emanava un sottile profumo. Erba novella, buona per il pascolo. Chissà se la sua mandria c'era andata, al pascolo, quest'estate.

Nauseato per tutto il sangue versato, le gambe verso l'acqua del lago che pigramente sciabordava, portava la testa all'indietro, scrutando le pendici della montagna striata dal sangue di guerrieri e di draghi.

Gli abitanti del borgo di Amandael avevano accolto lui e i suoi armigeri senza dire una parola, rifocillandoli e ospitandoli nelle loro case. Il nemico era stato respinto, ma il prezzo pagato era stato molto alto.

Tre dei suoi uomini erano stati uccisi, e molti giacevano senza conoscenza, preda dell’alito del drago. Anche tra gli uomini del lago molti erano stati e giacevano ancora in un torpore dal quale nulla poteva svegliarli.

Per altri, solo il silenzioso passaggio al sonno eterno.

Lo sciamano del villaggio stava facendo tutto quanto era in suo potere, ma al vedere la natura delle ferite aveva scosso la testa.

Molti tra gli uomini persi erano stati suoi amici, e tra chi gia-ceva nella terra del piccolo cimitero del villaggio vi era suo fratello.

Con lui aveva passato molte stagioni a condurre le bestie sull’alpe. Avevano insieme riso e provato paura, arrampicato e scaracollato giù per discese interminabili, sognato giovinette da corteggiare e famiglie da costruire.

La vita lo aveva poi condotto per altri sentieri, lui Capitano delle guardie del Signore , e il fratello ancora là, sull’alpe a preparare formaggi e osservare tramonti.

Ora si rammaricava di aver chiamato anche lui, quando gli fu ordinato di raccogliere uomini per snidare i diavoli del Montcöden, che terrorizzavano la riva orientale del lago.

Il fratello aveva lasciato a malincuore le bestie e lo aveva seguito, perché aveva fama di grande Capitano, che mai aveva subito una sconfitta.

Piangeva, per quella e le altre perdite, ma un comandante obbedisce sempre al suo Signore, anche a costo della vita. Propria o degli altri. Anche a costo di sentirsi per l'eternità responsabile della morte o della mutilazione di chi ti considera un eroe.

Pensieri vani, come il risaccare dell’acqua.

Un fruscio tra le canne lo allertò. Non mise mano alla spada: un nemico non avrebbe fatto un tale rumore.

Infatti apparve ai suoi occhi una giovane del borgo. Portava una cesta colma di cibo.

La osservò, sorpreso dal suo incedere a un tempo stesso leg-giadro e incerto. Non portava le vesti infagottate dei contadini, ma una tunica leggera che ne esaltava le forme, suscitando in lui più di un’emozione.

Le spalle dritte, i seni sboccianti dalla tunica, le braccia diafane e vellutate la rendevano una creatura desiderabile a chiunque fosse dotato di occhi e non fosse più un bambino

“Il capo villaggio mi ha chiesto di portarti da mangiare e bere”.

Il cavaliere fece un cenno come per ringraziare, ma la ragazza lo fermò, posandogli la mano sulla spalla.

Ebbe come un brivido. La mano della fanciulla, avvertita da sotto la tunica, pareva senza calore.

Lei riprese: “No, non occorre. Siamo noi a doverti ringraziare. I diavoli del Montcöden opprimevano il villaggio da anni, pretendendo tributi, e quando i denari e le bestie scarseggiava-no, il pagamento era richiesto sotto forma di giovani donne.

Nessuno riusciva a tener loro testa.

La nostra resistenza era debole, solo qualche audace osava porre mano alla spada, ma quelli erano troppi e troppo crudeli, e del ribelle restava in breve tempo solo il ricordo.

Si dice che i Diavoli lo annegassero nel punto più profondo del lago, affinché il suo corpo non potesse più tornare in superficie”.

La osservò. Era molto bella, ma qualcosa nel suo volto gli pareva ambiguo, sfuggente.

Gli zigomi alti, il viso lungo tradivano l'appartenenza ad una gente che non era di quel villaggio.

Cercò lo sguardo della giovane, ma ella si voltò. Per un atti-mo l’ondeggiare dei capelli rivelò una strana ferita sul collo, dietro l’orecchio. Svelta la ragazza si pose il cappuccio del mantello sulla testa, e quel gesto non fece che accrescere la curiosità del capitano.

“Com’è cominciata la guerra?”.

Sapeva già le ragioni, ma le volle sentire dalla voce della fanciulla. Forse per ascoltarne la cadenza sensuale, che rapiva nell’ascolto, o forse per un dubbio che lo rodeva nel cuore.

“Si iniziò a causa dell’acqua.

Le tribù del Montcöden chiedevano l’accesso al lago, che a loro dire, gli era stato concesso molti anni addietro, ma poi improvvisamente era stato loro negato.

I notabili del paese avevano consultato i documenti in loro possesso, ma non risultava nessuna concessione o contratto. Nessuna carta che parlasse delle tribù del Montcöden.

Quelli allora chiesero di nuovo, e i nostri negarono ancora il passaggio. Iniziarono allora i primi scontri, si passò alle scaramucce, e da queste alle battaglie, che confluirono in una lunga guerra”.

Il Capitano aveva ascoltato il commento della ragazza in silenzio. Corrispondeva alla relazione che aveva spinto il suo Signore a convocare la sua Compagnia e a metterla a disposizione dei suoi alleati del Lago.

Un dubbio, tuttavia, si era affacciato dapprima con timidezza poi, al proseguire del racconto, con sempre più decisione.

“Li chiamate Diavoli del Montcöden, ma io li ho visti, ho visto il loro sangue, udito i loro lamenti. Sono uomini, coriacei e pericolosi, ma uomini.

E l’alito del drago altri non è che la nebbia che sale dalla pianura e si sfilaccia tra le guglie del monte”.

Posò il piatto colmo di cibo. Ne era stato attratto, ma ora era assalito da un senso di nausea.

Levatosi in piedi, incalzò la ragazza, con domande, mentre l’ansia lo prendeva, insieme alla paura di aver compiuto azioni inutili e di aver condotto alla morte uomini a causa di un disegno oscuro.

Ella abbassò il viso, forse a nascondere segreti che temeva di svelare.

“Guardami, quando ti parlo!”. Le prese il volto tra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi.

E da quegli occhi fu rapito.

Nello stesso tempo, comprese di essere vittima di un inganno e di avere di fronte l’essere femmineo più bello e sensuale mai visto sulla terra.

Seppe che a scatenare la guerra non erano stati gli abitanti della montagna, e nemmeno gli uomini del lago: altre presenze avevano acceso la scintilla, perché il dolore del conflitto avvilisce le anime, e più facile è il loro controllo.

L’intento era proprio quello di mettere le genti le une contro le altre, per imporre la propria legge a entrambi i popoli.

E gli uomini scomparsi non erano morti, ma resi schiavi per soddisfare le ambizioni degli occulti esseri che si nutrivano di dolore.

Questo aveva saputo guardando negli occhi la fanciulla.

Lo aveva saputo perché anch’ella era parte di quella stirpe, che inseguiva il dominio di tutte le genti del lago, per instaurare un regno di dolore e di morte.

Voleva allontanarsi da lei, ma il suo sguardo lo ammaliava, e non riusciva a provare nessun sentimento ostile.

Mentre lui la guardava, sembrava recitare incantesimi. Quello che egli comprese fu una sola parola: “Resta”.

Ora nei suoi occhi vide promesse di notti infinite tra le stelle, cullati in una alcova galleggiante sul lago. Vide potere, voluttà, vide il dipanarsi di un amore esclusivo, appassionato e sensuale.

L’immaginazione corse verso banchetti festosi approntati in suo onore, balli, musiche, cibi succulenti, poi notti calde, baci appassionati e ancora potere, facoltà di decidere del destino di altri.

Ma, più forte, in lui albergava un senso di onestà e giustizia come mai in altri uomini , e il turbinio di immagini gli mostrò quale dura realtà di sofferenza lo avrebbe atteso.

Perché tutto questo si sarebbe realizzato giurando fedeltà alla stirpe della fanciulla, tessitori di trame avidi di puro potere.

La tentazione era forte, gli occhi lo stregavano, si sentiva scivolare verso il completo abbandono, ma il dolore per il sangue versato a motivo dell'interesse di altri lo scosse.

Rivide i suoi compagni feriti, il corpo esanime del fratello, i pianti delle donne e dei bambini che mai avrebbero dovuto vedere sangue e distruzione.

Allontanò bruscamente il volto della giovane dal suo. Era bella, ma di una bellezza perfida.

"Non posso" rispose.

Due parole, due sole parole racchiudevano tutta la nostalgia della sua terra, del sorriso della sua gente, tutto il dolore per il fratello perduto, tutta la fatica del combattere, e tutti i progetti per il domani.

Non più ammaliato dalla fanciulla, vide distintamente il suo futuro, ed era fatto di terre alte e bestie da accudire, di una casa e di una donna, di inverni accanto al fuoco e estati di canti e mietitura.

Mai più avrebbe mietuto vite.

Riprese, con voce bassa ma decisa. “Non avrai il mio cuore, incantatrice. Il tempo dell’inganno e finito”.

Lei gli voltò le spalle, sdegnata.

Raggiunta la riva, si liberò del mantello e della veste, rivelando la sua nudità diafana, e colmando il capitano di imbarazzata sorpresa.

Ma fu solo quando si gettò nell’acqua, disegnando un elegante cerchio e senza sollevare spruzzi, che notò le squame che aveva sulla schiena e l’elegante coda di pesce al posto dei piedi.