Le gesta di Nòna, donna d’erbe


Le gesta di Nòna, donna d’erbe


FOLIO I


I trovatori e i cantastorie veri
Che trovan desco ad ogni gran villaggio
Che dalla  Ispania, in  Francia per sentieri
Offrono a tutti il loro cantar saggio
E ti raccontano di dame e cavalieri
D’amore e armi pronte a ogni oltraggio
Con molto vezzo cantano un bel suono
E tempo lieto offron loro in dono.

Del pari io, che narratore sono
Dalla mia cetra e dalla voce mia
Traggo canzoni dal velato suono
Or di  battaglie e di fellonia
Or di amorosi vezzi e d’abbandono
Ma oggi, o vostra illustre signoria 
Mi si conceda  una novella storia
Vi canterò, di chi non volle gloria

Di una raminga donna , pia cristiana
Che per cent’anni abitò sul monte
Per boschi e prati, da austro a tramontana 
Dormì per terra, abbeverò alla fonte
Conobbe uomini di ogni foggia strana
Salvò viandanti, superò ogni ponte
Raccolse erbe, piante di ogni guise
Per far decotti, per malati e spose. 

[...] 
Sorella del soldato che più d’altri
Era ricco nelle virili parti

Andava per un bosco scuro e tetro
Dopo che ebbe il Bremp attraversato
Spedita, senza voltarsi indietro
Che fretta avea, il cuore accalorato
Il cielo grigio, come opaco vetro
Segnava il tempo che era già passato
Correa veloce, come’avesse ale
dalla nipote a festeggiar Natale

FOLIO II

Nessun timore avea nel traversare
Quella foresta a lei ben conosciuta
Che molti amici lei potea incontrare 
Di bestie in quella selva astuta
E homini che non volea parlare
Se non con lei, da loro rispettata.
Scura la strada, affrettava il passo, 
Fu spaventata da un gran fracasso

Saltò fuori dai rovi un grosso homo
Salvadego, nei modi e nell’aspetto
Sbarrò la strada, senza fare suono
A quella donna, poi batté sul petto
Un grosso ramo, mostrandol come dono
A chi ascoltava quanto gli fu detto
“Homo selvadego io sono e vivo
Attenta a  ti che vieni nel mio covo!”

Ma quella donna, dopo il primo istante
Emise un riso, senza più timore 
Lei conosceva quel rozzo parlante
Che pel di lupo avea per giustacuore
Si presentò, gli disse: “Sii paziente!
Non riconosci l’amica tua del cuore?
Nòna erbaiola, sono, ti rammenti?
Curai le mani e i tuoi piedi affranti.”

FOLIO III

Egli si accorse di quel volto noto
Posò il bastone, fece un gran sorriso
Si inginocchiò come un pio devoto
Lacrime vere nacquero sul viso
“Ah che bellessa, ti ho riconosciuto,
S’embruna, vieni al mio covo ascoso.”
“Non posso, molta strada mi aspetta
Devo giungere a casa in tutta fretta.”

Spostosi, l’homo barbuto dalla via
Concesse strada all’arguta dama
Solo un consiglio volle, tuttavia
Darle: “Attenta! Porta una lama
Teco, che vidi tristi sulla scia
Di un frate oggetto della loro brama.
Briganti eran , dieci li ho contati
Son lì avanti, malintenzionati.”

La selva era divenuta oscura
Ma Nòna camminava senza fallo
Finchè giunse presso una radura
Nel buio fu brillare di metallo
Specchio di fochi che mettean paura
Lampi di fiamma dentro l’occhio giallo
E urla suppliche sussurri e grida
A un omo sol tenevan tutti sfida.

Era quel frate che Zanni nominava
E tutt’intorno scuri carbonari
Con legni e ferri tutto lo menava
Perso che aveva pure li calzari
E della tunica brandelli. Supplicava
Che lo lasciasser per i suoi affari
Che pochi soldi avea, anzi più niente
E niente altro, era penitente.

FOLIO IV

E mentre l’om subiva ‘sto tormento
Nòna pensò a un modo per salvarlo
Si mise obliata dietro a un paravento
Di rami freschi, senza alcuno tarlo
Studiò qual fosse il giusto momento 
D’apparir loro in modo da sembrarlo
Perduta ella in mezzo alla foresta
Cercando dove posare la sua testa.

“O boni giovin,io vi chiedo aiuto,
Voi che sostate questa fredda sera
Persi il sentier, che non m’è conosciuto.
Potreste dirmi quale via è sicura?”
Tosto balzaron, il fià trattenuto
Ma videro che donna ella era
E raminga. Calmata la paura 
Chiesero a ella, con voce dura.

“Chi sei tu donna che nella selva vaghi
Quand’ormai scuro il mondo qui d’intorno?”
“Son erbaiola, colgo fior e spighi”
Rispose ella, “e da tutt’il giorno
Vo camminando, e sentieri vaghi
Qui m’han menata. Or vedo ch’un forno
Di legna arde, e potrei la cena
Tosto preparare, con buona lena

Uomini del nord di legna nutrite
Il foco, su! Che devvo preparare
Un desco pien di cose prelibate
Sola non posso, dovete aiutare
Al rivo col secchio lesti andate!
Ora venite qua e mescolare
questo paiolo dovete, mentre io 
Cerco le spezie e rendo lode a Dio.” 

FOLIO V

Erbe e radici, cavolo nero
Metteva Nòna con rapido gesto
A quegli uomini   non parea vero
Di cenare in modo tanto lesto
Si misero ai bordi del sentiero
Seduti; che giunte sarebber presto
Scodelle colme, cibo mantecato,
Da spesso lardo reso saporito. 

Quando seppe di non esser veduta
Nòna prese un’erba velenosa
Che non dà morte, da lei conosciuta
Che reca sonno, la mente riposa
Poi la gettò con azione astuta
Nella minestra, con mossa nervosa
Dal paiolo invitò tutti loro
A prender parte, per mangiar in coro.

Presto si preser la loro razione
Tutti i briganti e svelti mangiaron
In tutta fretta con gran compulsione.
Quindi colpiti dal sonno caderon
In un torpore che [...]

FOLIO VI

Ridendo Nòna parlò ad alta voce
“Mai ho veduto in tutti quest’anni,
Ribaldi ingenui, gente feroce
Così cadere in facili  inganni.”
E poi facendosi un segno di croce
Si volse  a quell’òmo pien d’affanni
“Destati frate, più non temere
Le tue ferite io posso curare.”

L’òmo di chiesa più morto che vivo
Credette ch’ella fosse un carceriere
Si alzò di colpo, cadde sul clivo
Poi pronta Nona lo fece sedere
Un sorso solo di vin curativo
 Con attenzione gli fece bere
“Son erbaiola, ti salvai la vita
La ghelda resi tutta assopita”

Fece un gran fischio, riscosse il bosco
Nòna chiamò l’amico più caro
L’om nerboruto dal piglio fosco
Prima che il ciel si facesse chiaro
Giunse e la donna quel gruppo losco
Raccomandò al buon montanaro.
“Legali bene, con stretti legami
Che non si muovano sino a domani.”

E domandando all’òmo del clero
Chiese:” Sei saldo? In piedi sai stare?
C’è molta strada da fare davvero
Prima che tu frate possa curare
Da un oste buono, òmo sincero
Andremo insieme, lì potrai stare
A riposare e le tue ferite
In poco tempo saranno guarite.”

FOLIO VII

“Dimmi il tuo nome, donna che possa
Renderti grazie per la mia salvezza.”
Disse quel frate mentre le sue ossa
Prendevan vita e la dolce brezza 
Dell’alba facea ogni foglia smossa.
Egli si levò, ma poca fermezza
Avea nelle gambe, ma pure stette
Come stambecco che sale le vette.

“Io sono Nòna, son raccoglitrice
Di erbe, piante, che tutte conosco,
Della bistorta colgo la radice
Per far infuso amaro e fosco
Foglie di malva, a quanto si dice
Allevian lo stomaco un po’ brusco
Erba crespina, ortica, giansana
Raccolgo anche moraj e bardana

E tu signore, sei sacerdote?”
“Lo sono, fra Beltramino di nome
E cercatore di cose ignote
Inquisitore son, disvelo come
Sovente il male offre la dote
Per viver senza il Suo Santo Nome
E rinnegare la vita cristiana
[...]

FOLIO VIII

Or certo quelli che mi han menato
Son posseduti da veri demoni
Ciascun di loro verrà giudicato
Per me son tutti pari a mammoni”
“Attento frate, quanto hai affermato
Non ti fa onore. Son certo strani
Questi banditi, ma non posseduti,
Da demoni, son solo affamati.”

“Tu donna d’erbe  con il tuo eloquio
Metti nel dubbio la mia sapienza?
Il tuo pensiero è tanto iniquo
Da stregoneria è la provenienza
Oh non temessi di andar in deliquio
Ti obbligherei a far penitenza.”
“Per quanto ne so potresti anche tu
Esser un demone o anche di più”

Lesta rispose Nòna al compagno.
Che gli impedì di fare risposta.
“Tu cerchi demoni, o òmo degno,
Nel luogo errato, la mia proposta
È che tu cerca, con ugual impegno
Tra chi il potere  a bella posta
Usa per  i poveri sovrastare
E il guadagno sol per se tenere.”

Così disse , ch’ella d’òmo e donna
Conosceva l’anima assai meglio
D’un prete, ma non chiedea condanna
[...]

Il frate di cure necessitava
E già molto tempo era passato.
Nòna  con un fischio l’aria tagliava
E un cervo venne,  il capo bordato
Di grandi corna, e forte bramiva.
Pose sul dorso il malcapitato
Quindi salì anch’ella sulla groppa
Dell’animale
[...]

FOLIO IX 

[...]
Un dì avea perduto di sentiero
Nell’aiutar quel fratello ingrato
Ora di corsa fin che fosse chiaro
Recuperare il tempo perduto
[...]

Presto la grande aquila la pose
Sovra’l ponte che traversa il rivo
Rombante e prestamente ascese
Lasciando Nòna sul terren gelivo.
Ella il suo cammin svelta riprese
Col passo suo come argento vivo
Giunse a casa che faceva sera

Nella notte splendeva gran bagliore
Il Natale tutti si attendeva
Nòna entrò e fu un gran rumore
Di festa ma ella non prestava
Occhi se non per  quel amore
Di nipote che un dono meritava
Da gerla tolse con dei gesti fini
Un sacco di odorosi mandarini



IL DOCUMENTO


Il documento il cui testo è qui  sopra riportato ha una storia singolare.
Nella tarda primavera del 2016 fu ritrovato un raro volume in una nicchia muraria di una antico casolare sito in località Castello, nel comune di Piazza Brembana, Bergamo, risalente alla seconda metà del XV secolo.
Era una copia del ‘Physica’ di Ildegarda von Bingen. Il ritrovamento destò curiosità e stupore, in quanto si trattava di un caso più unico che raro. Volumi di tale livello non erano certo diffusi nell’Italia del Medioevo, e men che meno in un contesto di alta montagna, come è il luogo del ritrovamento1.
Durante il primo esame accurato del volume, che aveva pesantemente subito le ingiurie del tempo, furono trovati nove fogli , tagliati in sedicesimo, ripiegati in due e posti in una tasca della copertina in legno e cuoio del volume ospitante2 .
A differenza del volume, le cui pagine erano in pergamena, i fogli erano prodotti in carta da stracci,  materiale molto più povero e anche meno robusto.  Il testo infatti, scritto oltretutto con un inchiostro di pessima qualità, presenta molte lacune, specie nella parte finale del poema.

IL POEMA


Si tratta di un poema in endecasillabi organizzato in ottave, con strofe che seguono lo schema ABABABCC, organizzazione piuttosto comune nel secolo XIV e adottata un po’ ovunque sino all’Ottocento. L’autore potrebbe essere un chierico o un letterato della valle, non molto erudito in quanto sono evidenti delle forzature nelle rime e l’uso di un linguaggio poco colto, che cercò di dare forma compiuta a una storia ampiamente diffusa tra i cantastorie del tempo. 
Non vi sono indicazioni della data di stesura, probabilmente risalente ai primi decenni del XVI secolo, quando le leggende intorno alla protagonista del poema  si erano consolidate in storie tramandate oralmente.
Presumibilmente lo sforzo dell’autore fu di dare dignità e fama a una storia popolare tramandata nella valle. Il tentativo non ha avuto successo, in quanto, pur ritrovando nei documenti storici della valle cenni che confermano l’esistenza di Nòna, la protagonista, non si ritrova altrove alcun cenno della storia narrata in questo poema.
L’autore inserisce nella narrazione elementi leggendari o fantastici, come l’homo selvadego, archetipo presente in tutto l’arco alpino, e gli animali che aiutano Nòna nell’impresa. Lo scopo era forse quello di elevare la figura della protagonista, da semplice operatrice in un settore umile, se pur importante, a figura quasi mitica, in forza della sua lunga vita e delle azioni positive che ha compiuto.
Si narra infatti del salvataggio con l’inganno di un frate da una banda di predoni che non avrebbero avuto scrupolo a porre fine alla sua vita.
La trascrizione sopra riportata ha integrato le frasi quando il significato era evidente, ad esempio nel caso in cui a essere illeggibili erano solo pochi caratteri come nell’ultima parte del folio VII, dove si deduce la parola Nome
Per viver senza il Suo Santo Nome
Qualora la lettura sia inevitabilmente compromessa, si è scelto di omettere il brano.

 LA PROTAGONISTA

La Nòna della storia narrata è realmente esistita. Si chiamava Delinda Arizzi, nata nel 1382 o l’anno seguente e morta nel 1484, alla incredibile età, per quel tempo, di 102 anni3.
Soprannominata Nòna ( traduzione in molti dialetti del nord della parola ‘nonna’)  una volta raggiunta la maturità, non formò mai una famiglia, non si legò a nessun uomo in maniera stabile e non ebbe figli.
Si suppone fosse figlia illegittima  di Paolo Colleoni, quindi  sorella maggiore del famoso condottiero Bartolomeo ( n. 1395, m. 1475), ma allevata dalla madre ( di cui ci è ignoto il nome)  che si sposò con Aldobrando Arizzi, di San Pellegrino. 
Questa parentela, oltre che da altre fonti, è testimoniata nel poema dalle ultime righe leggibili nel primo foglio:
Sorella del soldato che più d’altri
Era ricco nelle virili parti
chiaro riferimento al cognome del condottiero, Colleoni, che indica gli attributi maschili.

Non si hanno altre notizie dei rapporti con la famiglia del padre.  All’età di vent’anni circa la sappiamo nel monastero di San Tomè, nel comune di Almenno San Salvatore, ove si rifugia a causa di una perdita a causa delle frequenti azioni di guerriglia tra guelfi e ghibellini, particolarmente cruente in quegli anni. La permanenza nel monastero è breve, sicuramente antecedente allo scioglimento dell’istituzione religiosa da parte del Vescovo di Bergamo, nel 1407.
Diventa raccoglitrice d’erbe, e fornisce molti cerusici e medici della Valle. Parecchi anni dopo la si trova nei dintorni di Piazza Brembana, dove ha alcune terre ereditate dal padre adottivo.
Resterà in quella zona sino alla morte, acquisendo fama di donna esperta nella preparazione delle medicine a base di essenze officinali, e rischiando più di una volta di venire accusata di stregoneria. Tra le leggende tramandate sulla sua figura, si narra che ella, con altri personaggi dello stesso borgo di Piazza, custodisse l’ubicazione di una valle segreta, che nascondeva il segreto di prolungare la vita degli uomini.



Riferimenti

1.      “Ildegarda in val Brembana”, Gualtiero Asperti,  L’Eco della Valle, 25 luglio 2016
2.      “Una sorpresa nella sorpresa. Fogli nascosti tra le pagine di un libro medievale”, Gualtiero Asperti, L’Eco della Valle, 31 ottobre 2018
3.      Archivio parrocchiale di S.Martino vescovo, Piazza Brembana
4.      “Chronicon Bergomense Guelpho-Ghibellinum”, Castello Castelli, edizione a cura di Carlo Capasso, 1928 




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