Dopo il contagio



Dopo il contagio

Il Mondo di Madreselva


Loris G. Navoni




Anno Domini MCCCC, inditionem IX, die veneris XXII octobris,

Rispettabile padre, confido che i malefici effluvi della peste abbiano cessato i loro influssi presso la vostra dimora, così come sta accadendo qui. In obbedienza alle vostre richieste sono a rendervi edotto degli avvenimenti che mi sono capitati dall'ultima vostra visita, che è ormai un anno trascorso da allora.

La peste ha colpito anche il nostro convento di San Tomè, seppur non duramente come altrove. Appena vi furono avvisaglie che il contagio stava risalendo la valle, ci fu imposto di non uscire più dal convento. Per sicurezza si iniziò a diminuire le razioni di cibo, anche se una consorella affermava di aver visto un giorno in un angolo della dispensa numerose forme di cacio e di pane, che però erano scomparse il giorno dopo. Si vociferava che la badessa avesse qualche affare con i signori di Arzenate. Forse per lei non valgono le regole di probità che ci vengono imposte.

Per qualche settimana tutto andò bene. Poi anche nel convento entrò il morbo diabolico.

Prima fu la mia amica Violante, come me novizia. Fu colpita da febbre alta con brividi, male alla testa e vomito. Venne portata nella foresteria. Non la vidi più. Mi dissero che era morta tra atroci dolori dopo pochi giorni. Seguirono altre due consorelle. Anch’esse isolate, una soccombette al male, l’altra dopo due settimane si rimise in piedi, e dopo pochi giorni fu in grado di prestare assistenza alle altre quattro consorelle che nel frattempo si erano ammalate.

Tutte noi abbiamo vissuto quei giorni con sgomento, dolore e paura.

Pregavamo giorno e notte, e se dapprima chiedevano a Nostro Signore di far sì che la pestilenza non colpisse il nostro convento, poi pregavamo affinché le sorelle non soffrissero, e infine lo supplicavamo che se le portasse in fretta con sè onde evitar loro maggiori sofferenze.

Furono dodici in totale, tra sorelle e novizie, le anime sacrificate al morbo, la metà esatta delle abitanti il convento.

Restammo isolate per tutto l’inverno, senza poter far nulla per alleviare le sofferenze dei cristiani che abitavano i borghi tutt’intorno e che bussavano al nostro portone. Madre Ippolita ci aveva vietato espressamente di avere qualsiasi contatto con chiunque vivesse al di fuori delle mura.

Tuttavia per lei non valeva questa ingiunzione. Consorelle affermavano di aver visto due o tre figuri entrare di soppiatto da un piccolo ingresso nascosto nella sagrestia che dà direttamente all’esterno e che pensavamo mai utilizzato, e appartarsi con la badessa.

Cosa facessero, non era dato sapere, ma qualcuna si azzardava nell’immaginare cose non confacenti alle virtù richieste a una badessa.

Le notizie dall’esterno erano poche. Si sapeva che la peste era risalita nella Valle del Bremp sino oltre la Goggia, ivi aveva esaurito la sua forza. Da tempo non si registravano morti per peste.

Fu allora che la Madre Ippolita mi convocò.

Entrai nel suo studio, vi era un’altra consorella più anziana, suor Anita, che aveva forse superato ormai i cinquant’anni.

Madre Ippolita mi disse che era necessario andare con un carro a prendere merci pronte in un magazzino di Plazza.

“Solitamente ci andava sorella Anita con sorella Adalgisa, che però, come sai, ci ha preceduto nella casa del Padre. Non posso permettere che Anita vada da sola, ha bisogno di una compagna.”

“Tu sei la più anziana tra le novizie, e quella che meglio conosci le cose del mondo. Accompagnerai sorella Anita. Non dovrai rivolgere parola a nessuno, né mai ti allontanerai da lei. Vi accompagnerà un uomo fidato, un milite del Signore di Arzenate.”

L’idea di poter uscire dalle quattro mura del convento mi rallegrò l’animo. Tuttavia nello stesso momento, l’idea di dover viaggiare con sorella Anita, che il più delle volte si era mostrata scontrosa e antipatica, specialmente nei confronti di noi novizie, spense il mio entusiasmo.

Partimmo su un carro. Con l’aiuto di Dio, saremmo arrivati in serata a Plazza.

Attraversammo villaggi che il morbo aveva colpito pesantemente. Gli scampati alla malattia si aggiravano per le strade come sonnambuli. Ci guardavano con occhi bramosi, mirando alle nostre bisacce gonfie, ma la spada tenuta bene in vista da Cornelio, il milite che ci accompagnava, li teneva a buona distanza da noi.

Mi guardavo intorno, e pensavo a quanto fosse fortunata la vita nel convento. Pur non potendo avere una dieta ricca come nelle stagioni dell’abbondanza, nessuna di noi pativa la fame, e l’essere rinchiuse e con ampi spazi per ospitare le malate ci aveva permesso di evitare la fase più acuta del contagio.

Questi popolani, invece, erano esposti a ogni tipo di pericolo. C’era la peste, ma c’era anche la carestia, i raccolti non bastavano a sostenere la famiglia, e un villaggio depredava quello confinante, ed entrambi venivano razziati dalle bande di malfattori. Poi c’erano quelli che fuggivano da Bergamo, dove il morbo aveva colpito duramente, e si aggiravano di villaggio in villaggio a elemosinare rape ammuffite, pane duro come pietra, croste di formaggio irrancidite, spesso contendendole ai maiali.

Avevamo percorso qualche miglio, quando il cielo si rannuvolò all’improvviso. Non ci fu nemmeno il tempo di pensare e fummo investiti da violenti scrosci d’acqua. Provammo a proseguire, ma ben presto la strada divenne un fiume di fango, le vesti stracci che gelavano le membra. Cercammo un rifugio, trovammo un capanno da condividere con i due cavalli, il palafreno di Cornelio e il somiere del convento.

In un angolo vi era un po’ di paglia, che fu di conforto per i cavalli e per noi giaciglio. Dall’altro un focolare e Cornelio cercò di accendere un fuoco per restituire un po’ di calore alle membra intirizzite. Inutilmente, perché la sua pietra focaia era troppo umida, Fuori il diluvio continuava. Non potevamo far altro che aspettare. Mi appisolai.

Sorella Anita principiò a tossire e a respirare rantolando. Mi recai a prestarle conforto, senza pensare al peggio. Scottava. Non sapevo che fare. Avrei voluto uscire e cercare erbe medicamentose nei prati, che potessero abbassarle la febbre, ma continuava a piovere, e stava sopravvenendo l’oscurità. Non potei fare altro che vegliarla e pregare per lei.

Il mattino dopo, Anita aveva reso l’anima al Signore.

Scavammo con la spada e una picca che stava nel capanno una buca poco profonda, dove ponemmo il corpo della poveretta, mentre il cielo si tingeva di ceruleo. Cornelio tremava dalla paura.

“E se fosse peste?” seguitava a dire. Cercavo di tranquillizzarlo, ma in fondo anch’io temevo che il morbo avesse aggredito pure lei. Non osammo toccare il corpo più del necessario, pertanto non potemmo verificare se vi erano bubboni o pustole.

Coperto la salma con terra e pietre, promettemmo alla morta che saremmo tornati per riportarla in convento e farle un vero ufficio funebre come si addice a una cristiana.

Cornelio non cessava la lamentela sul rischio di essere stati contagiati. Al che sbottai:

“Ma insomma, se fosse peste saremmo già stati contagiati. Le siamo stati accanto per tutto il giorno. Se questo è il nostro destino, agitarsi non serve a nulla, se invece siamo destinati a sopravvivere, la paura non ha ragion d’essere.”

Il milite rimase un po’ pensieroso, non pareva avere un intelletto molto acuto. tuttavia credo che la mia spiegazione lo avesse in qualche modo colpito, perché smise di lamentarsi.

Attaccammo il somiere al carro e Cornelio si mise a cavallo. “Per agir più veloce in caso di pericolo.” disse.

Proseguimmo verso Plazza, un tragitto che bastavano poche ore ci stava impegnando già da più di un giorno.

Attraversammo i borghi di Zonio, Sancti Peregrini, Sancto Johanne Blanco. Ovunque vi erano lutti e desolazione. Qualcuno si aggirava sul limitare del bosco, alla ricerca di qualche bacca tardiva. Altri si muovevano nel villaggio quasi fossero sonnambuli. Al sopraggiungere del carro, molti volti si illuminarono speranzosi, spegnendosi quasi subito, al constatare che il cassone era vuoto.

“Dovremo stare molto attenti al carico, al ritorno. Temo la fame di questa gente.” commentai.

Al fine, dopo aver superato Lena, una breve salita ci portò a Plazza. Il mercante ci fece entrare furtivi nel suo cortile. Caricammo quattro forme grandi di cacio stagionato, ventiquattro forme più piccole di formaj de mut, dodici pani neri, dodici di orzo e sei di farina bianca.

Annotai diligente tutto il carico, lo copiai su un altro foglio che suggellai col timbro del convento e resi al mercante e ci preparammo per il ritorno.

Non passavamo inosservati. Il telo di protezione era rigonfio, si poteva facilmente intuirne il contenuto. Cornelio sguainò la spada e la tenne bene in vista. Passammo Lena, qualche derelitto si avvicinava pericolosamente al carro, allontanato dal soldato dall’agitare della sua lama.

Provavo afflizione per le condizioni di quelle persone. Continuavo a chiedermi cosa avrei potuto fare.

Fu alle porte di Sancto Johanne Blanco che presi la decisione. Una giovane madre, portando un infante in braccio quasi fosse un fagotto di stracci, si rivolse a me con gli occhi pieni di lacrime.

“Ti prego, Madre, abbi misericordia di noi, di questo mio bambino che non mangia da due giorni!”

Provai ad abbozzare una replica al fatto di avermi chiamato madre, io che sono solo novizia, ma le sue mani tese, il volto contorto in una smorfia disperata, indussero in me un sentimento di compassione. Cosa potevo fare per loro? Non avevo nulla di mio, ma avevo un carico di cibo. Era molto cibo, anche per il nostro convento. Forse avremmo potuto fare a meno di qualcosa.

Chiesi a Cornelio di tagliare una forma di pane d’orzo, e ne diedi metà alla donna, e tagliammo una anche di formaj, e anche di quello ne donai a quella madre.

Ci avviammo ma, vedendo che avevamo donato del cibo alla donna, altri si stavano avvicinando.

“Cosa facciamo?” chiese Cornelio preoccupato.

Come potevo decidere io, umile novizia, di un carico che mi era stato affidato? Eppure questa gente soffriva, e non era forse dovere di ogni cristiano seguire i comandamenti del Signore?

Sapevo che mi sarei pentita di quanto stavo per fare, ma era la cosa giusta.

“Dividi in pezzi metà del pane e del formaggio e distribuiscili a chi ha bisogno.”

Cornelio mi guardò con occhi sbarrati.

“Fai come ti dico, è una mia decisione, non tua.”

Proseguimmo porgendo pagnotte e formaggio, e sui volti delle donne e degli uomini vedevamo fiorire un barlume di speranza.

Giunti al convento, Cornelio si congedò in fretta.

“Vado dal mio Signore. Di sicuro per questa tua bravata prenderò una buona dose di scudisciate, ma ci sono abituato. Sempre meglio che cadere nelle grinfie di madre Ippolita. Che il Signore ti protegga!”

Spronò il suo cavallo e si allontanò velocemente.

Entrai e raccontai tutto alla sorella cellaria, che fu turbata dalla mia scelta. Mi disse di andare nella mia cella e attendere una chiamata dalla madre superiora.

Trascorsi il tempo pregando e meditando sul mio gesto. Sapevo di non aver adempiuto ai voleri della madre e agli interessi del convento, ma in cuor mio sapevo di aver preso la decisione giusta. Noi sorelle avevamo possibilità e forze di sopravvivere a periodi di carestia ben lunghi, mentre i poveri di quei villaggi non avevano nulla, se non la nostra carità.

Ma come avrei tenuto testa a madre Ippolita?

Dopo un periodo che mi sembrò lunghissimo, ma era forse passata non più di un’ora, una sorella bussò alla porta della mia cella.

“La madre ti attende in chiesa.”

Era giunta l’ora del mio giudizio. Il cuore in gola palpitava.

Madre Ippolita mi attendeva nel presbiterio, inginocchiata a pregare. Giunta che fui al suo cospetto, si alzò, mi guardò con occhi che tradivano rabbia a stento trattenuta.

“Ho saputo delle tue azioni. Come ti sei permessa?”

La sua voce stridula echeggiò nel vuoto della chiesa. Io tenevo il capo chino.

“Chi ti credi di essere, se pensi di poter disporre dei beni del convento così, liberamente?”

Trovai la forza di rispondere.

“C’era molta gente che moriva di fame, lungo la strada. Ho pensato…”

“Taci! Quello che hai fatto è inqualificabile. Avresti dovuto tornare subito al convento. Hai disobbedito alle mie disposizioni e sperperato i beni del convento. Meriti una punizione esemplare!”

Non replicai. Sovente il bene non viene compreso, lo stavo imparando a mie spese. Già mi immaginavo quale tipo di pena mi sarebbe stata comminata. Mi sarebbero stati assegnati lavori che di solito fanno gli inservienti? O peggio, sarei stata cacciata dal convento?

“E’ vero. Per la sua disobbedienza meriterebbe una pena esemplare. Ma non per i suoi gesti di carità.”

Una voce stridula ma potente proveniva dal fondo della navata centrale,sotto il nartece. Nella penombra si intravedeva una figura curva.

“Chi sei tu che importuni la badessa nel suo convento? Chi ti ha fatto entrare?”

Questi non rispose, ma si mosse lentamente, sino a che, uscendo dall’ombra, rivelò il suo volto.

Madre Ippolita cambiò immediatamente atteggiamento. Si curvò, quasi prostrandosi, e con la mano mi invitò a fare altrettanto.

“Eccellenza Reverendissima! Non sapevo…”

Era sua Eccellenza Monsignor Branchino Besozzi, Vescovo di Berghem. Si muoveva lentamente, pareva stanco, ma i suoi occhi brillavano.

“Via, Reverenda Madre! Mi stupisce constatare che le incombenze per la gestione del monastero vi impediscano di riconoscere una buona azione. Questa giovane novizia… come ti chiami, cara?”

“Delinda, Eccellenza. Delinda Arizzi.”

“Bene. Dunque dicevo, Delinda non ha fatto altro che mettere in pratica le parole di Nostro Signore. Ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere. Non è così?”

Annuii.

Madre Ippolita cercò, balbettando, di articolare una scusa.

“Ma, Eccellenza, quelle vettovaglie erano per il convento…”

Monsignor Branchino alzò la mano per farla tacere.

“Ho appena visitato i magazzini e le dispense del convento. Sono ben fornite, e dubito che altro cibo fosse veramente necessario alle nostre consorelle. Ho dei sospetti sul vostro operato, madre Ippolita. Ma voglio discuterne più tardi con voi. Ora congediamo questa novizia.“

Si avvicinò e mi fece alzare, che ero stata tutto il tempo in ginocchio.

“Delinda, la tua punizione per aver disobbedito alle indicazione della Madre Badessa è quella di recitare Compieta nella tua cella per sette giorni. Ma questa sera, dopo la recita dei Vesperi, ti citerò a esempio di carità, che va posta ad un livello ben più alto dell’obbedienza.”

Così dicendo mi strizzò l’occhio.

Ero imbarazzata. Mai mi era capitato di essere lodata per qualcosa che avevo fatto.

Mi recai nella mia cella e attesi sino a che non suonò la campana per i vespri.

Mi dissero che il vescovo e Madre Ippolita ebbero una lunga conversazione nel capitolo, e alla conclusione videro monsignor Branchino uscire con aria soddisfatta, mentre la badessa aveva un’aria così cupa che non si era vista nemmeno nei peggiori giorni del contagio. Non credo che fosse per causa mia.

Da quel giorno, vissi nel convento come in un limbo. Seguivo la vita ordinaria, ma né la Madre né le suore anziane mi rivolsero più la parola.

Le novizie provavano ammirazione, le consacrate riprovazione.

E così anche oggi, che mi sono decisa a scriverVi questa lettera, egregio padre mio.

Infatti mi rincresce deludere le Vostre aspettative ma non mi ritengo adatta alla vita monastica, fatta di sacrifici spesso utili solo alle brame della badessa, chiusa tra quattro mura senza poter vedere il tramonto scendere oltre i monti innevati, senza poter parlare con i bambini, con i vecchi. Il mio desiderio è di vedere il mondo, rendermi utile con la conoscenza delle erbe che gli studi qui mi hanno permesso , e ve ne rendo grazie.

Chiedo dunque licenza a voi di lasciare il convento appena questo sia possibile. Se mi è concesso, vorrei prendere possesso di quelle terre di cui mi avete parlato e mettere in pratica quanto appreso nella cura del corpo e dell’aspetto con le erbe. Mi rimetto in ogni caso alla volontà Vostra.

Che Iddio vi renda Grazia della Vostra generosità,

Vostra, con affezione, Delinda




(Note storiche: nel 1399 ci fu una delle numerose ondate di peste nera che colpì l’Europa nel Basso Medioevo; nei tre anni successivi si dice che persero la vita circa ventimila persone nel territorio di Bergamo. Il vescovo di Bergamo, Branchino Besozzi, fu conosciuto per la sua generosità verso la diocesi e verso i bergamaschi. Morì nel luglio 1399 ma, per ragioni narrative, gli ho allungato la vita di un altro anno. Il monastero di San Tomè ospitava un convento femminile, che fu poi soppresso nel 1407 a causa di scandali di ordine morale e finanziario.)

Il mito delle conoscenze di un tempo


 Immaginate di abitare a Milano e di dover andare a Bergamo per affari. Che mezzo prendereste?

Se vi venisse proposto di andare a dorso di mulo, oppure a piedi, accettereste?   

Eppure è così che si muovevano nel Medioevo, solo i più ricchi si potevano permettere i cavalli.

Credo che la nostra scelta si orienterebbe sull'autovettura, o sui servizi di autobus o di treno.

Questi mezzi presentano rischi molto più alti del semplice camminare: un corpo lanciato a velocità tra i sessanta e i cento chilometri orari, se incontra un ostacolo non fa una bella fine. Eppure sono rischi che siamo disposti a correre, pur di risparmiare tempo e evitare un viaggio scomodo.

Lo stesso nella pulizia della casa. Se vi chiedessero di rinunciare a tutti quei prodotti chimici per la detersione del corpo, dei vestiti e delle superfici e proponessero di tornare a lisciva e acqua fredda, lo fareste? Forse qualcuno potrebbe essere anche disposto a realizzare il sapone in casa, ma credo che la maggioranza declinerebbe l'invito.

E ancora, rinuncereste al riscaldamento a gas a favore di un fumoso fuoco in mezzo alla stanza, come si usava nella maggior parte delle case del medioevo?

Trovo quindi incomprensibile pretendere di fare uso di piante e erbe e altre sostanze non artificiali allo stesso modo in cui si usavano nei secoli fino al XVIII.

Circolano nel web centinaia di  metodi infallibili per guarire questa o quella malattia, decine di pagine che esaltano le qualità di una pianta o di un fungo, nugoli di bloggers che fanno riferimento a come ci si curava una volta, a come una volta non c'era tutta questa chimica, e che invocano il ritorno a un tempo antico, sovente identificato con il medioevo. in cui tutto era molto più "naturale".

I metodi e le medicine proposte dai grandi studiosi dell'epoca derivavano dalle competenze proprie di QUEL periodo storico.
Insieme a brillanti intuizioni confermate poi da ulteriori studi condotti con metodo scientifico, molte ricette contenevano dei veri e propri svarioni o proponevano ingredienti  di comprovata inutilità o, peggio, velenosità.

"Chi ha l'itterizia metta un diamante nel vino o nell'acqua: guarirà."

"L'uomo colpito da demenza o da follia mangi spesso e a sufficienza le carni di balena, aggiungendo soltanto del pane, e ritroverà le sue facoltà mentali."

"Chi soffre di calcoli prenda del prezzemolo, aggiunga un terzo di sassifraga e faccia cuocere nel vino, filtri attraverso una benda e ne beva in un bagno molto caldo."

Ildegarda von Bingen ( 1098-1170), Libro delle Creature 


Sono scritti di Santa Ildegarda, nota per la sua erudizione e per aver raccolto tutte le conoscenze  mediche e botaniche del suo tempo. Per quanto possa apprezzare le sue opere, non credo che per curare l'itterizia, o la demenza o i calcoli mi metterei a seguire i suoi consigli.

Beninteso, ciò non vuol dire che la cura con le erbe non sia efficace. Ma occorre valutare caso per caso, e fare riferimento alle conoscenze SCIENTIFICHE di OGGI, e non dei ciarlatani che si spacciano per guru.

In "Madreselva", il romanzo che mi propongo di rendere pubblico a breve, riporto la saggezza degli erboristi di quel periodo, la prima metà del XIV secolo, ma vorrei fosse chiaro che questo non avvalla nessuna delle ricette o degli usi di piante descritti nel libro. 
Il mondo naturale è ancora pieno di segreti che possono aiutarci a vivere in armonia. Si deve studiare seriamente con gli strumenti infinitamente più potenti che abbiamo a disposizione oggi per scoprirli, tuttavia.


Madreselva - Incipit



Come ogni notte, gli alberi oltre il confine del bosco erano neri e immobili. Lontano, le chiome si confondevano con le rocce ugualmente scure. 

Quelli accanto al villaggio invece ardevano del riflesso delle fiamme che stavano consumando stalle e abitazioni. Le vacche, le capre, gli uomini, tutti sopraffatti dal terrore, invadevano le strette vie, si intralciavano, calpestavano, in una confusione che era più che mai alimento prediletto della paura.

Alcuni avevano osato porre un freno all’ondata ghibellina, ma poco poterono qualche falcione e un paio di scuri contro una masnada di guerrieri armati finanche di balestre.
Ora i difensori giacevano a terra, senza più respiro. Delinda aveva evitato zoccoli e corna degli animali in fuga per giungere al luogo dove lo scontro si era fatto più crudo, la piazza al centro del villaggio. Temeva per Viviano, accorso a difendere le poche cose del villaggio.
Quello che vide la paralizzò.

Nello spiazzo c’erano corpi afflosciati come otri vuoti, la terra era nera dal sangue rappreso.
Il suo fidanzato era appoggiato a un tronco, il suo corpo squarciato da ferite mortali. Tentava una debole difesa agli attacchi di un nemico in fronte a lui, stringendo un corto baselardo. Ma l’assalitore, in piedi, parò facilmente i colpi e, quasi noncurante, affondò la spada nel ventre del giovane.

Delinda urlò, sentendo in tutto il suo essere la devastazione del corpo del suo amato. 

L’omicida alzò lo sguardo. Forse non si aspettava di vedere una donna ritta, immobile, gli occhi penetranti i suoi. Forse il dolore letto nel volto della ragazza era troppo forte da sopportare. Fu dunque l’uomo il primo a rivolgere gli occhi da un’altra parte. 

Un momento dopo Delinda si riscosse e si avventò sul nemico con la stessa forza del temporale. Ma l’assassino era svelto di spada, e fece compiere al suo ferro un largo arco, a circoscrivere uno spazio entro il quale non era prudente accostarsi.

Quel fendente raggiunse Delinda sulla guancia, scavando un solco profondo e pulsante. Ella si sentì mancare per il dolore. Lo slancio verso l’uomo si disarticolò in un ruzzolare scomposto che la portò con la faccia per terra.

Prima di perdere i sensi vide uno di quegli assassini avvicinarsi al corpo di Viviano e cercare di strappargli il baselardo dalle mani, ma il suo capo lo fermò. 

«Lascia! Abbiamo fatto abbastanza qui. Andiamo!»


Si risvegliò mentre il chiarore dell’aurora incendiava i bordi delle montagne. I pagliai e le abitazioni colpite erano diventati brace palpitante, così come lo era la sua guancia.

Si trascinò accanto a Viviano. Un rantolo intermittente era il solo segno di vita in quel corpo martoriato.

«Viviano! Viviano!»

Il dolore diede forza a Delinda, che si sedette accanto a lui e raccolse in un abbraccio il corpo senza forze.

Il calore della fanciulla sospese per un momento la discesa nell’oblio del giovane. Aprì gli occhi e riconoscendola tentò di allargare il volto in un sorriso.

Lei ricambiò, mentre le sue lacrime lavavano il sangue dal volto tumefatto dell’amato. Mentre teneva fissi gli occhi su di lei, il respiro cessò. 

Un sottile lamento nacque dal cuore di Delinda, si espanse nel suo petto, uscì dalla bocca come un roco singhiozzo, un urlo interrotto.

Avevano ucciso il suo amato. I sogni che insieme avevano sognato, le speranze coltivate, il lavoro per costruire un futuro insieme, cancellati nell’attimo di un agguato. Il dolore la prese tremendo, pressante. Le invase la mente lasciando che solo un acuto pensiero salisse alla coscienza.

Vendetta.

Prese il baselardo  di Viviano e lo strinse tra le mani fino a sanguinare.

Avrebbe vendicato il suo Viviano.




Il capitano e la fanciulla


Il sole aveva cessato di indorare l’acqua del lago e si era coricato dietro i monti.

L'uomo aveva posato la spada, la punta tra le onde a raffreddare l’odio e il sangue che la ricoprivano.

Era stanco.

L'erba sotto il suo corpo era fresca, emanava un sottile profumo. Erba novella, buona per il pascolo. Chissà se la sua mandria c'era andata, al pascolo, quest'estate.

Nauseato per tutto il sangue versato, le gambe verso l'acqua del lago che pigramente sciabordava, portava la testa all'indietro, scrutando le pendici della montagna striata dal sangue di guerrieri e di draghi.

Gli abitanti del borgo di Amandael avevano accolto lui e i suoi armigeri senza dire una parola, rifocillandoli e ospitandoli nelle loro case. Il nemico era stato respinto, ma il prezzo pagato era stato molto alto.

Tre dei suoi uomini erano stati uccisi, e molti giacevano senza conoscenza, preda dell’alito del drago. Anche tra gli uomini del lago molti erano stati e giacevano ancora in un torpore dal quale nulla poteva svegliarli.

Per altri, solo il silenzioso passaggio al sonno eterno.

Lo sciamano del villaggio stava facendo tutto quanto era in suo potere, ma al vedere la natura delle ferite aveva scosso la testa.

Molti tra gli uomini persi erano stati suoi amici, e tra chi gia-ceva nella terra del piccolo cimitero del villaggio vi era suo fratello.

Con lui aveva passato molte stagioni a condurre le bestie sull’alpe. Avevano insieme riso e provato paura, arrampicato e scaracollato giù per discese interminabili, sognato giovinette da corteggiare e famiglie da costruire.

La vita lo aveva poi condotto per altri sentieri, lui Capitano delle guardie del Signore , e il fratello ancora là, sull’alpe a preparare formaggi e osservare tramonti.

Ora si rammaricava di aver chiamato anche lui, quando gli fu ordinato di raccogliere uomini per snidare i diavoli del Montcöden, che terrorizzavano la riva orientale del lago.

Il fratello aveva lasciato a malincuore le bestie e lo aveva seguito, perché aveva fama di grande Capitano, che mai aveva subito una sconfitta.

Piangeva, per quella e le altre perdite, ma un comandante obbedisce sempre al suo Signore, anche a costo della vita. Propria o degli altri. Anche a costo di sentirsi per l'eternità responsabile della morte o della mutilazione di chi ti considera un eroe.

Pensieri vani, come il risaccare dell’acqua.

Un fruscio tra le canne lo allertò. Non mise mano alla spada: un nemico non avrebbe fatto un tale rumore.

Infatti apparve ai suoi occhi una giovane del borgo. Portava una cesta colma di cibo.

La osservò, sorpreso dal suo incedere a un tempo stesso leg-giadro e incerto. Non portava le vesti infagottate dei contadini, ma una tunica leggera che ne esaltava le forme, suscitando in lui più di un’emozione.

Le spalle dritte, i seni sboccianti dalla tunica, le braccia diafane e vellutate la rendevano una creatura desiderabile a chiunque fosse dotato di occhi e non fosse più un bambino

“Il capo villaggio mi ha chiesto di portarti da mangiare e bere”.

Il cavaliere fece un cenno come per ringraziare, ma la ragazza lo fermò, posandogli la mano sulla spalla.

Ebbe come un brivido. La mano della fanciulla, avvertita da sotto la tunica, pareva senza calore.

Lei riprese: “No, non occorre. Siamo noi a doverti ringraziare. I diavoli del Montcöden opprimevano il villaggio da anni, pretendendo tributi, e quando i denari e le bestie scarseggiava-no, il pagamento era richiesto sotto forma di giovani donne.

Nessuno riusciva a tener loro testa.

La nostra resistenza era debole, solo qualche audace osava porre mano alla spada, ma quelli erano troppi e troppo crudeli, e del ribelle restava in breve tempo solo il ricordo.

Si dice che i Diavoli lo annegassero nel punto più profondo del lago, affinché il suo corpo non potesse più tornare in superficie”.

La osservò. Era molto bella, ma qualcosa nel suo volto gli pareva ambiguo, sfuggente.

Gli zigomi alti, il viso lungo tradivano l'appartenenza ad una gente che non era di quel villaggio.

Cercò lo sguardo della giovane, ma ella si voltò. Per un atti-mo l’ondeggiare dei capelli rivelò una strana ferita sul collo, dietro l’orecchio. Svelta la ragazza si pose il cappuccio del mantello sulla testa, e quel gesto non fece che accrescere la curiosità del capitano.

“Com’è cominciata la guerra?”.

Sapeva già le ragioni, ma le volle sentire dalla voce della fanciulla. Forse per ascoltarne la cadenza sensuale, che rapiva nell’ascolto, o forse per un dubbio che lo rodeva nel cuore.

“Si iniziò a causa dell’acqua.

Le tribù del Montcöden chiedevano l’accesso al lago, che a loro dire, gli era stato concesso molti anni addietro, ma poi improvvisamente era stato loro negato.

I notabili del paese avevano consultato i documenti in loro possesso, ma non risultava nessuna concessione o contratto. Nessuna carta che parlasse delle tribù del Montcöden.

Quelli allora chiesero di nuovo, e i nostri negarono ancora il passaggio. Iniziarono allora i primi scontri, si passò alle scaramucce, e da queste alle battaglie, che confluirono in una lunga guerra”.

Il Capitano aveva ascoltato il commento della ragazza in silenzio. Corrispondeva alla relazione che aveva spinto il suo Signore a convocare la sua Compagnia e a metterla a disposizione dei suoi alleati del Lago.

Un dubbio, tuttavia, si era affacciato dapprima con timidezza poi, al proseguire del racconto, con sempre più decisione.

“Li chiamate Diavoli del Montcöden, ma io li ho visti, ho visto il loro sangue, udito i loro lamenti. Sono uomini, coriacei e pericolosi, ma uomini.

E l’alito del drago altri non è che la nebbia che sale dalla pianura e si sfilaccia tra le guglie del monte”.

Posò il piatto colmo di cibo. Ne era stato attratto, ma ora era assalito da un senso di nausea.

Levatosi in piedi, incalzò la ragazza, con domande, mentre l’ansia lo prendeva, insieme alla paura di aver compiuto azioni inutili e di aver condotto alla morte uomini a causa di un disegno oscuro.

Ella abbassò il viso, forse a nascondere segreti che temeva di svelare.

“Guardami, quando ti parlo!”. Le prese il volto tra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi.

E da quegli occhi fu rapito.

Nello stesso tempo, comprese di essere vittima di un inganno e di avere di fronte l’essere femmineo più bello e sensuale mai visto sulla terra.

Seppe che a scatenare la guerra non erano stati gli abitanti della montagna, e nemmeno gli uomini del lago: altre presenze avevano acceso la scintilla, perché il dolore del conflitto avvilisce le anime, e più facile è il loro controllo.

L’intento era proprio quello di mettere le genti le une contro le altre, per imporre la propria legge a entrambi i popoli.

E gli uomini scomparsi non erano morti, ma resi schiavi per soddisfare le ambizioni degli occulti esseri che si nutrivano di dolore.

Questo aveva saputo guardando negli occhi la fanciulla.

Lo aveva saputo perché anch’ella era parte di quella stirpe, che inseguiva il dominio di tutte le genti del lago, per instaurare un regno di dolore e di morte.

Voleva allontanarsi da lei, ma il suo sguardo lo ammaliava, e non riusciva a provare nessun sentimento ostile.

Mentre lui la guardava, sembrava recitare incantesimi. Quello che egli comprese fu una sola parola: “Resta”.

Ora nei suoi occhi vide promesse di notti infinite tra le stelle, cullati in una alcova galleggiante sul lago. Vide potere, voluttà, vide il dipanarsi di un amore esclusivo, appassionato e sensuale.

L’immaginazione corse verso banchetti festosi approntati in suo onore, balli, musiche, cibi succulenti, poi notti calde, baci appassionati e ancora potere, facoltà di decidere del destino di altri.

Ma, più forte, in lui albergava un senso di onestà e giustizia come mai in altri uomini , e il turbinio di immagini gli mostrò quale dura realtà di sofferenza lo avrebbe atteso.

Perché tutto questo si sarebbe realizzato giurando fedeltà alla stirpe della fanciulla, tessitori di trame avidi di puro potere.

La tentazione era forte, gli occhi lo stregavano, si sentiva scivolare verso il completo abbandono, ma il dolore per il sangue versato a motivo dell'interesse di altri lo scosse.

Rivide i suoi compagni feriti, il corpo esanime del fratello, i pianti delle donne e dei bambini che mai avrebbero dovuto vedere sangue e distruzione.

Allontanò bruscamente il volto della giovane dal suo. Era bella, ma di una bellezza perfida.

"Non posso" rispose.

Due parole, due sole parole racchiudevano tutta la nostalgia della sua terra, del sorriso della sua gente, tutto il dolore per il fratello perduto, tutta la fatica del combattere, e tutti i progetti per il domani.

Non più ammaliato dalla fanciulla, vide distintamente il suo futuro, ed era fatto di terre alte e bestie da accudire, di una casa e di una donna, di inverni accanto al fuoco e estati di canti e mietitura.

Mai più avrebbe mietuto vite.

Riprese, con voce bassa ma decisa. “Non avrai il mio cuore, incantatrice. Il tempo dell’inganno e finito”.

Lei gli voltò le spalle, sdegnata.

Raggiunta la riva, si liberò del mantello e della veste, rivelando la sua nudità diafana, e colmando il capitano di imbarazzata sorpresa.

Ma fu solo quando si gettò nell’acqua, disegnando un elegante cerchio e senza sollevare spruzzi, che notò le squame che aveva sulla schiena e l’elegante coda di pesce al posto dei piedi.




Una capra in meno


Avvenne un tempo che Nòna, ancora nella sua giovane età, girovagando per la Valle, si trovò improvvisamente senza denari. Le erano rimasti solo pochi soldi, per qualche  pagnotta e un tocco di formaggio, sufficienti per qualche giorno. La sua intenzione era di risalire la valle sino a superare la Goggia e raggiungere Plassa.  Perché i suoi scopi si  avverassero era peró necessario che disponesse di denaro. Si mise dunque  cercare lavoro nei pressi di Dzogn. Le dissero di provare da Gesualdo, mercante e proprietario di numerosi capi di bestiame, che cercava guardiani per accudire un gregge di capre.

Nòna andò e si propose per il lavoro.  L’uomo la squadrò da capo a piedi.

“Non mi pari una contadina, sei certa di voler fare questo lavoro?”  chiese con fare sprezzante.

“Ho già condotto animali, da giovinetta. E sono abituata a star sulla montagna, se è questo che volete sapere.” rispose in modo altrettanto risoluto la donna. 

“Sta bene - rispose Gesualdo - lavorerai per me, prima però dovrai superare una prova molto semplice. Ci sono lupi e orsi che potrebbero predare le mie capre, perciò ho bisogno di guardiani che sappiano contare, oltre che non temere di incontrare una belva. Ti chiedo di contare quante capre ci sono in questo recinto.”

Nòna fece per andare a rimuovere la sbarra che chiudeva il recinto, ma fu interrotta dal padrone.

“Aspetta, così son buoni tutti! Contarle una a una quando escono o entrano è semplice. Voglio che le conti senza farle uscire dal recinto.”

La ragazza stette per qualche attimo immobile, perplessa. Da che mondo e mondo la conta delle bestie si faceva quando la mattina le si faceva uscire per il pascolo o la sera quando le si richiamava. Provò a contarle, ma le bestie si muovevano e presto perdette il conto.

Quelle capre sembravano tutte uguali!  Doveva trovare un altro metodo, doveva fare in modo che fossero un po’ diverse.


Dalle ceneri di un fuoco spento trasse un tizzone, e con esso fece a ogni capra che contava un segno sul muso, così che non rischiasse di contarla di nuovo. Dopo aver controllato di non averne lasciata  nessuna, diede la risposta al padrone.

“Sono trentatre capre nel recinto, signore.”

Egli la guardò, sforzandosi di dissimulare la sorpresa.

“Sei in gamba, ragazza. Ve bene, accudirai alle capre su nei pascoli alti, per tutta la bella stagione. Ogni giorno manderò un uomo a prendere il latte che mungerai dalle capre.

Stai bene attenta. Se al ritorno avrai perso anche una sola capra, dovrai lavorare per me  tre anni tre mesi e tre giorni. Se riporterai tutto il gregge, ti pagherò.”

“E quanto mi pagherai?” 

“Tre grossi, tre denari e tre soldi.”

Nòna acconsentì.

Salì ai pascoli della Pianca col gregge e con due cani da pastore, e si stabilì nella grotta che fungeva da rifugio.

Durante il giorno, mentre curava le capre, masticava un pezzo di  raìs dulza e osservava il cielo mutevole, magnificando Dio per le Sue opere. La notte, chiuse le capre in un barech, il recinto di pietre e posti i cani ai due lati dell’ingresso, meditava sulla grandezza del Creato e sulla insignificante piccolezza dell’uomo.

Era sola sulla montagna, con la sola compagnia dei due cani, e il quotidiano appuntamento col ragazzo che prelevava il latte da lei munto per portarlo alla casera in basso dove l'avrebbero trasformato in formaggio.

“Ci sono disordini in paese - disse un giorno il ragazzo - hanno bruciato delle case e malmenato un paio di uomini. Meglio starsene qui sull’ alpe.” 

Nòna pensó che l’ uomo non perdeva mai occasione per mostrare il suo egoismo e la sua malvagitá, e quanto piú si credeva nel giusto e benedetti dal Signore, tanto piú il suoi delitti erano efferati e crudeli.

Un giorno, era giá meriggio inoltrato, e il sole si apprestava a gettare un velo aranciato sui versanti della valle esposti a occidente, dal sentiero vide avvicinarsi delle figure. Erano un uomo e la sua compagna, che in braccio portava un infante, mentre altri due bambini li seguivano.  Nona zittí i cani e andó loro incontro. Gli occhi degli adulti erano  atterriti e stanchi, i due bimbi non si reggevano in piedi.

“Abbiate caritá per noi - esordí l’ uomo - Avreste un po’ di latte per sfamare i nostri bambini? Son tre giorni che giriamo  per la valle, e abbiamo mangiato solo poche gallette. Per fortuna l’ acqua non manca.”

Nóna li fece  accomodare nella grotta, ravvivó il fuoco, offrí loro  pane e formaggio, latte per i bambini e un sorso di vino per  l’ uomo e la donna.

“Cosa vi porta cosí lontano da casa?” Chiese Nòna, sorpresa per questo insolito incontro sulle pendici dell’ Alpe.

“Non abbiamo piú casa, ne bestiame. Non abbiamo piú nulla.   E questo a causa del mio orgoglio.”

L’ uomo,  che portava il nome di Albino,  raccontò di essersi scontrato con un signore del suo paese. Questi pretendeva che gli si cedesse il passo.  Ma l’uomo era intento a governare una vacca, per di più irrequieta, e aveva risposto con male parole al signore.  Questi lo aveva minacciato, ma Albino non gli aveva dato peso.

“ Pochi giorni più tardi un manipolo di uomini si presentò alla porta di casa. Mi presero e malmenarono, fecero uscire mia moglie e i figli dalla casa e le diedero fuoco. 

Ci ingiunsero di non mettere più piede nel villaggio, che altrimenti l’avremmo pagata con la morte. Furono sicuramente mandati dal signore che avevo offeso. 

Siamo rimasti rintanati in un fienile per due giorni, poi ci siamo messi in viaggio. Oltre Valfundra  vi è un borgo dove vive un mio cugino, ci ospiterà lui, ma i bambini hanno fame e sono stanchi.”

“Questa notte dormirete qui - rispose Nòna - non è granchè, ma c’è riparo per tutti e la legna non manca. Il fuoco vi riscalderà e renderà più leggero il vostro animo. Domani vedremo cosa posso fare per voi.” 

La famiglia non smise di ringraziare sino a quando la notta calò sulla fiamma del focolare. Nóna offrì loro una tisana preparata da lei con le erbe dell’ alpe, artemisia, melissa, menta e verbena, per conciliare il sonno.

Il giorno dopo Albino e la sua famiglia si prepararono a lasciare Nòna.

“Aspettate!” disse loro, e entrata nel barech scelsa una capra femmina, la legò e la porse ad Albino.

“Tenete, darà latte per i vostri figli e quando vi sarete sistemati potrete venderla.”

La famiglia fu sorpresa per il dono, e abbozzarono un rifiuto. Si capiva però che il latte della capra faceva loro comodo.

“Ma tu come farai? La capra non è certo tua, dovrai pagarla.”

“Oh, non preoccupatevi per me, ho del denaro messo da parte per momenti come questi.”

Albino la guardò poco convinto.

“Andate, ora. Tra breve arriverà il ragazzo del latte e non vorrei che vi vedesse qui.”

Mamma e papà raccolsero le loro cose, diedero la cavezza al più grande dei loro figli e si misero in cammino, voltandosi di continuo a salutare Nóna. 

“Ti saremo sempre grati per la tua ospitalità. Se un giorno ci rivedremo ti ricompenseremo per il bene che ci hai fatto.”

“Aspetta, non mi hai detto il nome di quel signore così permaloso.”

“Si chiama Gesualdo, Gesualdo Stuardi. Ti auguro di non averci mai a che fare.”


Nòna soffocò una risata. Era forse un segno del destino che un parziale rimborso di quanto era stato sottratto ad Albino e alla sua famiglia provenisse dalle proprietà dello stesso Signore mandante di quel sopruso. Ma mentre salutava con la mano per l’ultima volta i suoi estemporanei amici pensò che si era andata a cacciare in un bel guaio. Come avrebbe rimborsato la capra mancante? 

Doveva pensare a una soluzione, e in fretta, che la stagione bella volgeva al termine.

Passò giorni a rimuginare, immaginando scenari in cui lei fuggiva, lasciando il gregge incustodito. Ma così rischiava di avere alle calcagna gli uomini di Gesualdo, che  non sarebbero stati teneri con lei. Oppure avrebbe addotto come scusa l’attacco di un lupo o un orso, o la caduta in un dirupo. Ma niente, tutte queste scuse non l’ avrebbero salvata dallo stare al suo servizio per  tre anni tre mesi  e tre giorni. Rimpiangeva di aver accettato  l’incarico di guardiana di capre, ma non rimpiangeva di aver aiutato quella famiglia. Piena di questi pensieri, vedeva i giorni scorrere, e il mattino farsi piú pungente, e le ombre della sera allungarsi sempre piú. 

Venne il giorno  della discesa dall’ alpeggio. Nóna era ormai rassegnata a passare un bel po’  di tempo a servizio di Gesualdo, perché non le era riuscito di trovare una soluzione all’ impiccio della capra mancante. Peró era serena, perché sapeva di aver agito giustamente.

Gesualdo fu burbero e spiccio con lei. 

“Avanti, porta le capre nel recinto, e contale ad alta voce, così che possa controllare.”

Fece come le fu detto e cominció.

“Una, due, tre, quattro…”

Doveva almeno inventarsi una scusa, non sarebbe servito ad alleggerirle il giogo che l’ avrebbe legata a Gesualdo per  tre anni, tre mesi e tre giorni, ma almeno…

“Diciassette, diciotto, diciannove, venti…”

… almeno non sarebbe stata costretta a dire la veritá, che aveva aiutato una persona da lui perseguitata.

“Ventinove, trenta … trentuno e trentadue…”

“E trentatre. Bene, le hai riportate tutte, ottimo lavoro!” esclamò soddisfatto Gesualdo

Nóna rimase a bocca aperta. Com’ era possibile?

“Sono giuste?”

“Certo, sono trentatre.”

“Padrone, hai contato anche tu? Sono trentatre?”

“Come te lo devo dire?  Adesso non continuare a tediarmi, altrimenti mi passerá la voglia di pagarti.  Stai qui un momento, che vado a prendere il denaro.”

Nóna era stupefatta. Era certa di aver donato una capra alla famiglia di Albino, perció avrebbero dovuto esserci trentadue capre, non  trentatre.

Da dove era spuntata quella capra?

Gesualdo tornó con una borsa.

“Come pattuito vi sono tre grossi, tre denari e tre soldi. Puoi controllare se vuoi.”

Nóna prese la borsa tintinnante senza dir nulla. Quei soldi le avrebbero permesso di proseguire il suo viaggio.  Ma la capra? Le contava ogni sera, su all’ alpe, quando rientravano nel barech, ed erano sempre trentatre, e da quando aveva dato la capra ad Albino erano sempre state  trentadue.  

Mentre si allontanava veloce, per un irrazionale timore che quella della capra in più fosse solo un incantamento dal quale Gesualdo si sarebbe presto avveduto, continuava a cercare una spiegazione a quanto le era accaduto.

Ma spiegazione non v’era. Semplicemente, lo sguardo del Signore si era posato sul gesto di Nòna, che aveva tentato di riparare a uno sgarbo di un uomo ingiusto nei confronti della Giustizia del mondo. Egli si era compiaciuto del gesto di generosità e l’aveva premiato con il dono di una capra.


(liberamente tratto da una leggenda medievale)